Verso le Settimane Sociali. Formare all'autorealizzazione: non solo competenze
di Luisa Ribolzi
Per l'istruzione del futuro non basta professionalizzare i giovani e neppure sviluppare abilità trasversali. Occorre aggiungere anche una dimensione etica che formi il carattere.-
Il tema del raccordo fra formazione e occupazione costituisce da molto tempo un punto centrale della riflessione: sono passati più di vent’anni (era il 1995) da quando la Commissione europea ha promulgato il libro bianco: 'Insegnare e apprendere. Verso la società della conoscenza', più noto come 'documento Cresson', che ha ispirato il cosiddetto 'processo di Bologna', e poi la 'strategia di Lisbona', ripresa e modificata nel 2010 con il nome di 'UE 2020', che mira a fare dell’Europa una società della conoscenza, centrata sulla formazione. Il modo in cui questo rapporto viene concepito si è modificato consistentemente negli ultimi anni, e mi pare che questo cambiamento possa costituire uno spunto di riflessione in vista delle Settimane Sociali, il cui titolo è di per sé innovativo: «Il lavoro che vogliamo: libero, creativo, partecipativo, solidale». Non quindi un lavoro qualunque, tanto per guadagnarsi la vita, ma un lavoro che si inserisca in un più ampio orizzonte di 'vita buona', come forma fondamentale di realizzazione della persona.
Da questo punto di vista, una visione che si concentri esclusivamente sulla funzione professionalizzante dell’istruzione e dell’educazione, finalizzata a risolvere o quantomeno a ridurre il dramma della disoccupazione, è inadeguata, perché il lavoro (come l’educazione) è un diritto della persona, prima che uno strumento per la competitività delle imprese e dei paesi. L’esistenza di uno scollamento, di un mismatch, un mancato incontro, fra le qualifiche offerte dalla formazione e quelle domandate dal mercato del lavoro è quindi un ostacolo alla piena realizzazione umana, ed è importante pensare a percorsi di formazione che tengano conto delle reali possibilità di impiego.
Questo non vuole dire sottovalutarne il ruolo strettamente educativo, ma indirizzarli correttamente a quel successo formativo che ha per ciascuno un significato e un contenuto diversi. Il processo di liceizzazione della scuola italiana, accompagnato dalle carenze dell’orientamento, sposta continuamente in avanti il momento dell’applicazione di quanto si è imparato e accresce la difficoltà di trovare lavoro. Se poi si pensa che la struttura gerarchica della scuola italiana porta le famiglie a considerare gli indirizzi professionalizzanti (e soprattutto la formazione professionale) come una scuola di serie B, per chi ha fallito negli indirizzi 'nobili' o 'non è portato agli studi', si spiega almeno in parte la riluttanza ad investire nella formazione tecnica e professionale.
Eppure, a partire dalla metà degli anni Ottanta, è cresciuta la preoccupazione di dimostrare l’utilità della scuola, in crescente competizione con altre voci della spesa sociale per una popolazione sempre più anziana: di qui la crescita di importanza della valutazione, anche nella sua forma semplificata di valutazione degli apprendimenti, di quel che si impara a scuola. Più recentemente, in un mercato del lavoro che richiede professionalità più complesse e più flessibili, acquista rilievo la preoccupazione di insegnare ad applicare le conoscenze alla soluzione di problemi concreti: è l’affermazione delle competenze, che non sostituiscono le conoscenze o le abilità, ma le integrano e le rendono utilizzabili. Questo passaggio fa saltare (o dovrebbe farlo) la separazione fra apprendere e fare, diminuendo il peso della trasmissione lineare dei saperi e valorizzando l’alternanza, e ogni altra forma di integrazione nel curricolo del lavoro come modalità specifica di apprendimento.
Questo indubbio arricchimento, però, si è mostrato anch’esso inadeguato a far fronte alle esigenze di una società caratterizzata dalla rapidità del cambiamento e dalla crescente importanza degli elementi relazionali. Le abilità hard o cognitive (conoscenze generali e specifiche) devono necessariamente essere integrate dalle abilità soft o non cognitive, definite anche trasversali, come la capacità di lavorare in gruppo, di risolvere problemi, di comunicare in modo efficace... A questa pur fondamentale acquisizione manca ancora la dimensione etica, perché il sapere, per secoli finalizzato alla verità, oggi viene valutato in base alla sua utilità. Si aggiunga un ultimo elemento di cui tenere conto, la cui importanza è forse ancora sottovalutata: la pervasività della rete, in cui al 'vero' si sostituisce il 'verosimile', che diventa per i giovani il criterio di riferimento più importante.
Parlare di una dimensione etica dell’educazione non significa un ritorno al passato, ma una maggiore attenzione al presente, tanto è vero che sono stati gli economisti ad applicarla alla riflessione sul sistema formativo. James Heckman, premio Nobel per l’economia, ha introdotto e sviluppato il concetto di character skill, caratteristiche legate alla personalità, variamente elencate e correlate fra loro, i cosiddetti Big Five, i cinque 'pilastri' che sono l’apertura all’esperienza, la coscienziosità, l’estroversione, l’amicalità e la stabilità emotiva, e interagiscono con altri fattori come le motivazioni e le abilità cognitive. Il fattore più forte e più strettamente collegato con tutti gli altri è la coscienziosità, descritta come «tendenza dell’individuo a svolgere un impegno o un’attività in modo accurato, responsabile e laborioso», che mi sembra molto simile a una dote tipicamente presente nell’etica cattolica, il senso di responsabilità.
Una formazione efficace, in grado cioè di rispondere in modo positivo alle domande della società oltre che della persona, è oggi quella capace di creare sintesi, di rivolgersi non ad aspetti particolari dell’individuo, ma alla persona nella sua totalità e unità, al 'bambino intero', che una volta diventato adulto sarà capace di collaborare alla costruzione di una società in cui il lavoro è libero, creativo, partecipativo, solidale: che non significa eliminare la dimensione della fatica e della difficoltà legate alle condizioni oggettive della crisi del lavoro che ha ben descritto su queste stesse pagine Mauro Magatti, ma inserirle in una prospettiva di sviluppo che non è solo economico, ma si configura anche come un impegno comune. Questo richiede al sistema formativo in tutte le sue articolazioni di (ri)strutturarsi sulla base di un progetto, che vede al centro una rete di relazioni che comprende anche il mercato del lavoro.
Non si tratta più, però, di un mercato del lavoro subito passivamente, ma in esso ciascuno è innanzitutto imprenditore di se stesso, quale che sia la posizione che occupa: e il limite principale della scuola e dell’università italiana consiste a mio avviso nella incapacità di motivare all’autorealizzazione, legata probabilmente all’impostazione burocratica e impiegatizia della professione insegnante. Nel vasto e operoso mondo delle scuole cattoliche e delle facoltà di ispirazione cattolica che formano insegnati ed educatori, e nella stessa formazione professionale che realizza esperienze di assoluto valore nel coordinamento con il mercato del lavoro, questo dovrebbe costituire uno spunto di riflessione per gli anni a venire.
da www.avvenire.it
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