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Lettere. «Sforziamoci di vedere ciò che va bene» E impegniamoci a dire «grazie»

di Marina Corradi
Caro Avvenire,
tutti ci lamentiamo di qualche cosa che non va in Italia: i treni sono sporchi e sempre in ritardo, i politici sono tutti corrotti, i giornali ci nascondono la verità, la sanità pubblica non funziona... Ma perché non iniziamo a vedere la parte positiva delle cose e non ce la diciamo? I treni regionali sono non pulitissimi, ma molto economici e spesso in orario. Cerchiamo di denunciare i politici corrotti, ma per coloro che non lo sono riconosciamoglielo. Ci sono giornali più corretti che altri (questo lo è!), leggiamoli e consigliamoli. La Sanità pubblica salva molte persone, fa ottime cose: diciamolo. Dobbiamo sforzarci di ricostruire un senso di appartenenza, e un orgoglio di essere italiani, che ci faccia vedere anche il bicchiere mezzo pieno. Tutto questo deve passare dal nostro senso civico, che si tramuta nel denunciare quello che non funziona – ma con l’intento di migliorarlo. Contemporaneamente occorre divulgare quello che funziona, perché, altrimenti, non riconosceremo più tutte le cose belle che abbiamo costruito, e ne abbiamo tante. Basterebbe in fondo pensare di più al bene comune e un po’ meno al bene personale.
                                                                                  Enrico Reverberi
Sono d’accordo con il lettore nel percepire nelle nostre strade, nelle nostre case, un gran malcontento, una frustrazione appena contenuta, ma pronta a emergere. Del resto testimonia questo malcontento la percentuale elevatissima dei non votanti alle ultime elezioni amministrative, quando al secondo turno meno della metà degli elettori si è presentata al seggio. Una tale percentuale di astensione colpisce ancora maggiormente quando si tratta di eleggere il sindaco, di decidere chi amministrerà la propria città, quindi i mezzi pubblici, la viabilità, i servizi comunali, la prossimità quotidiana. È come se la maggioranza degli italiani stesse dicendo: non ci interessa più il nostro vivere comune, io non ne voglio sapere niente, me ne chiamo fuori. Come una rabbia tenuta a freno, ma ormai sedimentata. Ora, è vero che molti possono dirsi profondamente delusi dalla politica in questo Paese. Eppure – e io stessa, a volte, me ne meraviglio – dentro questo malessere italiano si vive, si va a scuola, si lavora e si produce. I treni vanno, gli ospedali nella grande maggioranza funzionano, l’assistenza sanitaria è gratuita e di buon livello, il volontariato è una struttura portante. Dunque è vero che comunque, come Avvenire si impegna a documentare, il bicchiere è almeno mezzo pieno. Eppure in tanti sembriamo vedere sempre quello mezzo vuoto, e ci lamentiamo. Se c’è un sentimento dominante, dai bar ai social, è l’indignazione. Siamo perennemente indignati: contro il Governo o gli industriali, contro il sindaco o l’Alitalia, o l’accoglienza dei migranti. Il leit motiv dei messaggi su Facebook è il lamento, quando non l’ingiuria. Ora, non voglio affatto dire che nel nostro Paese tutto vada bene, e anzi sappiamo come la disoccupazione, in particolar modo giovanile, sia drammatica e abbia gravi effetti anche sulla natalità. Sappiamo come l’immigrazione non sia facile da gestire. Sappiamo che c’è la mafia e la corruzione. Tutto questo fa notizia, fa titolo, e ce lo ripetiamo, quasi dimenticando quanto c’è di buono, e funziona. Senza accorgercene, diventiamo distruttivi. Reciprocamente alimentiamo la indignazione e ci deprimiamo. Pensate se in una famiglia si trascorresse il tempo soltanto a rinfacciarsi colpe, a sottolineare tutto quello che non va, e mai a dirsi che ci si vuole bene, che si è solidali, che si farebbe di tutto per il marito e i figli. L’aria, in quella casa, diventerebbe invivibile. Occorre, anche in una comunità, educarsi a fare memoria di ciò che è buono, di ciò su cui siamo fondati, di ciò in cui crediamo e che speriamo. Senza questa tensione a un bene comune un Paese non va da nessuna parte. Si arena nelle sue carenze, nei suoi difetti, nei suoi pubblici e privati peccati. Si intristisce e si ferma. Ciò che, con la crisi demografica in atto, sta già forse accadendo. Bisogna coltivare il bene comune, come un giardino prezioso. Esserne consapevoli, sottolineare tutto ciò che è buono, tutto ciò che funziona. Ogni mattina, cominciando dal notare che l’autobus è puntuale e la scuola dei bambini pulita. Bisognerebbe ricominciare da un quotidiano esercizio di gratitudine: grazie a coloro per cui i treni vanno, e le strade sono passabilmente in ordine. Una gratitudine che poi è profondamente cristiana, nel prendere atto che tutto, e anche il prossimo, è un dono. Proviamo a pensarci: ogni mattina trovare una ragione per dire grazie, nelle nostre città. La gratitudine fa bene all’anima, tanto quanto la indignazione amareggia.
da www.avvenire.it
@Riproduzione Riservata del 04 luglio 2017

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