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Padri «dimezzati», ecco come va a finire

di Andrea Laffranchi e Chiara Maffioletti

La presidente dell’associazione degli uomini separati: basta preconcetti. Storie drammatiche ma anche (ed è una novità) positive. Il nodo dell’affido.-

Il presidente della prima associazione italiana di padri separati è una donna. «All’inizio la cosa ha suscitato perplessità — racconta Tiziana Franchi, in carica da nove anni —. Ma quando poi si spiega che non è un problema di uomo-donna ma un preconcetto, allora la cosa si chiarisce». Il preconcetto a cui si riferisce, è quello per cui «gli uomini sono considerati sempre quelli nella posizione forte. Nella separazione però non è così: l’uomo è sempre il più debole. È lui che quasi sempre perde tutto». Anche se magari in posizione economicamente dominante, gli uomini arrivano più impreparati alla separazione: «Sono più restii a confidarsi perfino con i propri famigliari. Lo fanno quando è tardi, quando è già stata fissata l’udienza in tribunale». Franchi parte dall’idea che si debbano tutelare «quei padri che vorrebbero stare di più con i figli, un diritto che troppo spesso gli viene tolto».

La nuova legge, quella sull’affido condiviso, farebbe solo credere «che i genitori sono paritari ma se metti la collocazione primaria sempre dove vive la madre, allora resta lei a fare il bello e il cattivo tempo». Tra gli ostacoli principali, quello di sradicare l’idea che la mamma sia più fondamentale del papà: «Conosciamo anche situazioni di ex coppie che si sono dichiarate disponibili a gestire i figli a metà, ma i giudici spesso non hanno accolto le loro richieste. Il buon senso il più delle volte non esiste». Così finisce che i padri si ritrovino «disperati, a elemosinare il diritto di vedere i loro figli».

Ne sa qualcosa Claudio Cattabriga, 53 anni e due bambine di 11 e 9 anni. Il suo matrimonio è finito 7 anni fa e, confessa: «Sono piuttosto negativo sulla possibilità che cambino le cose. Nel momento in cui ci si separa non consensualmente, anche se con affido condiviso, si perde la possibilità di fare il padre se la persona che avevi sposato decide di non fartelo fare». Riprende: «L’atteggiamento diffuso è stabilire il collocamento dei figli presso la madre indipendentemente da tutto. Io sono stato estromesso da casa mia quando lei lo ha deciso, ha preso tutti i soldi che avevo sul conto e da quel momento ha iniziato a fare delle mie figlie quello che voleva». La sua richiesta? «Se uno ha voglia di fare il padre, i tempi di frequentazione dovrebbero essere equilibrati, tutto qui. L’affido alternato c’è in tutta Europa ma da noi no. La sensazione è che nemmeno ti credano».

Tutto questo ha conseguenze pratiche sull’organizzazione della sua vita: lavora come manager a Milano, le figlie vivono a Bologna nella sua ex casa e quando sta con loro si appoggia alla residenza di campagna della madre, a 27 chilometri dalla città. «Il mercoledì vado in treno a Bologna, poi torno a Milano, poi ritorno un venerdì ogni due per prenderle e il lunedì ci svegliamo all’alba per arrivare in tempo a scuola, quindi riparto. Su dieci giorni lavorativi ne perdo tre. Ho chiesto mille volte di compattare i giorni, magari dandomi il giovedì al posto del mercoledì per fare anche solo un viaggio in meno, ma non c’è stato verso». Anche per questo, ha deciso di rinunciare all’affido condiviso, visto che «non era reale ma io dovevo solo ascoltare le volontà della mia ex moglie» che però «ha inteso la rinuncia all’affido come una rinuncia alla potestà e mi ha escluso da tutte le scelte che riguardavano le bambine, dalla salute alla scuola: non ho potuto scegliere a che istituto iscrivere le bambine, non sono coinvolto su nulla». E, a suo avviso, c’è poco da fare: «Ogni cosa dovrebbe trasformarsi in una battaglia, ma se anche fosse, non ci sono i tempi: fai un processo per poter scegliere la scuola, ok, ma dura 7 anni e nel frattempo la scuola l’hanno già finita».

La mamma è sempre la mamma, purtroppo anche per molti giudici: «Era vero in una società abituata intendere la donna come la figura che sta al focolare: sono norme che fanno riferimento a una società che non esiste più». Oggi, in caso di separazione, non dovrebbero esserci più ostacoli all’idea di avere dei «tempi equilibrati di frequentazione, trasmettendo anche due modelli. Forse potrebbe aiutare una certa sensibilità verso i patti prematrimoniali». E se proprio deve parlare di speranza, si augura che continuando a riflettere sulle unioni omosessuali, si possa arrivare a una soluzione utile per tutti: «Io mi ritrovo nella condizione del genitore non biologico della coppia gay, che non ha possibilità di decidere nulla sul figlio. Paradossalmente, se si risolve quel punto magari viene fuori la soluzione anche per padri come me».

Stefano Scalabrini oggi ha 37 anni e l’affido delle sue due figlie. Ma per due anni non ha potuto vederle. Un inferno che non sarebbe mai finito se la sua ex compagna non avesse esagerato al punto da essere finita in guai più seri di quelli in cui aveva deciso di far finire lui. «Appena ci siamo lasciati sono partite denunce per maltrattamenti: era appoggiata da tutta la sua famiglia». Le denunce, in tutto, sono state 14: «Non ho più visto le mie bambine, andavo sotto casa per sbirciale, di nascosto. Avevano 2 anni e 1 anno. Un incubo. Tutto quello di cui ero accusato era senza alcun fondamento». Per fortuna, grazie all’aiuto del Ctu a cui si era rivolto, e agli eventi in cui si è infilata la sua ex, la situazione si è ribaltata e l’affido delle bambine è passato a lui: «A lungo mi sono sentito non creduto. Di fatto non vedevo le mie figlie, piangevo la notte, e tutto questo per due anni. Quando le ho abbracciate, mi vengono ancora le lacrime, mia figlia grande mi ha detto che piangeva tutti i giorni perché le mancavo ma la mamma le aveva detto che ero morto».

Una situazione drammatica, e il paradosso è che viene quasi da dire “per fortuna”, visto che “se lo fosse stato un po’ meno, se la mia ex si fosse comportata bene, io le mie figlie non le avrei riviste più. Ora non resta che sperare che l’alienazione genitoriale diventi reato».

Per fortuna ci sono anche storie a lieto fine e sono tante. Come quella di Stefano Sacchetto, 46 anni, di Padova. «Con la mia ex moglie ci siamo accorti che le cose non funzionavano più quando nostro figlio aveva due anni». Per loro, rendersi conto che l’amore era finito è stato triste ma non drammatico e non ha mai messo in discussione il loro ruolo di genitori: «Non abbiamo avuto mai nessun problema, confesso. Il bambino, a cui abbiamo da subito spiegato tutto, ha iniziato a vivere una settimana con me e una con la mamma, come fa tuttora».

L’affido condiviso che in Italia è per molti un’utopia, per loro è stato dall’inizio della loro separazione la realtà: «Abitiamo abbastanza vicini, a tre chilometri, e di norma sta con me dal giovedì al martedì, ma con la mia ex esco ancora oggi a cena, spesso anche con i nostri nuovi compagni... il giorno della prima Comunione di nostro figlio l’abbiamo passati tutti insieme». Insomma, se c’è l’intenzione di far funzionare le cose, le cose funzionano: «Beh, la mia ex moglie lavora con me, abbiamo una società, nata dopo che ci siamo lasciati. Per quanto riguarda gli accordi, abbiamo fatto tutto insieme, con un avvocato che ci ha consigliati. Anche se non stiamo più insieme, la nostra famiglia è come se fosse un’azienda in cui si fa un consiglio su tutte le cose che riguardano nostro figlio: dalle scarpe da comprare ai corsi da frequentare».

 L’affido condiviso che in Italia è per molti un’utopia, per loro è stato dall’inizio della loro separazione la realtà: «Abitiamo abbastanza vicini, a tre chilometri, e di norma sta con me dal giovedì al martedì, ma con la mia ex esco ancora oggi a cena, spesso anche con i nostri nuovi compagni... il giorno della prima Comunione di nostro figlio l’abbiamo passati tutti insieme». Insomma, se c’è l’intenzione di far funzionare le cose, le cose funzionano: «Beh, la mia ex moglie lavora con me, abbiamo una società, nata dopo che ci siamo lasciati. Per quanto riguarda gli accordi, abbiamo fatto tutto insieme, con un avvocato che ci ha consigliati. Anche se non stiamo più insieme, la nostra famiglia è come se fosse un’azienda in cui si fa un consiglio su tutte le cose che riguardano nostro figlio: dalle scarpe da comprare ai corsi da frequentare».
  
da www.corrieredellasera.it
@Riproduzione Riservata del 09 luglio 2017

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