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EUGENIO CAMPAGNA: «IL RAPPORTO CON DIO MI FA RESTARE CON I PIEDI PER TERRA»

di Francesca D'Angelo

da www.famigliacristiana.it

@Riproduzione Riservata del 02 gennaio 2020

«La fede mi indica le priorità vere», dice il cantautore che da piccolo frequentava la chiesa solo perché lì si suonava ma ora lotta perché a X Factor si possa andare a Messa la domenica.-

Un cantante che ha qualcosa da dire. Di solito si dice così. Nel caso di Eugenio Campagna sarebbe però più esatta l’espressione «un cantante che ha qualcosa da chiedere»: alla vita, a Dio, a me, a te, a se stesso. Per quanto giovane – ha 28 anni e a inizio carriera – ha appena sfondato partecipando al talent show X Factor. Nella sua accelerata e turbolenta vita romana Campagna è un uomo che ti guarda negli occhi e ha il coraggio di domandare: «Il tuo cuore per cosa vive?», «Qual è il senso della vita?». E resta lì, fermo, in mezzo al caos del mondo, all’insonnia e agli attacchi di panico, fino a quando non ottiene una risposta abbastanza soddisfacente.

Non è certo una persona perfetta, anzi: di errori ne ha commessi parecchi. Ma la sua forza è la determinazione a chiedere, a non rimanere in superficie. Forse è questo che, a X Factor, è piaciuto di lui, fino a promuoverlo fin da subito nella rosa dei “favoriti” per la vittoria. Dietro a quella voce, alla faccia da bravo ragazzo e ai testi pop emerge una tensione: a non eludere la sofferenza, la solitudine, la vita stessa. A chiamare le cose con il proprio nome, anche quando fanno male. E soprattutto a rievocare, nella sua musica, quelle domande di senso che ognuno di noi dovrebbe sempre porsi ma che, invece, conserviamo accuratamente in un cantuccio.

A X Factor si è presentato come cantautore: un mestiere molto diverso da quello dell’interprete, perché è un punto di vista sul mondo. Qual è il suo?

«La musica è far succedere qualcosa: è un’emozione che smuove. Ha presente il famoso battito d’ali della farfalla che può creare un uragano? Quello è il potenziale delle canzoni: strappare un sorriso a una persona triste, cambiare non dico la vita della gente, ma magari le sorti di una serata. È una cosa che mi sta molto a cuore: come molti, sono passato attraverso la sofferenza e in quei momenti l’arte mi ha coccolato. Ricordo che, quando sono stato male per gli attacchi di panico e ansia, andavo nei forum online per trovare risposte, per capire cosa mi stesse succedendo. Erano pieni di persone che stavano male e scrivevano: probabilmente erano sole. Sono sole. Ecco per me il massimo sarebbe se una persona triste, che ascolta la mia canzone in mezzo al traffico o al supermercato, trovasse uno spunto utile per la propria vita».

Quanto è importante che le persone si sentano meno sole nella loro fragilità?

«Per citare Cremonini: viviamo in una società dove tutti abbiamo il numero 10 sulla schiena ma poi sbagliamo i rigori. La verità è che non sappiamo fare tutto, come vorremmo far credere: siamo bravi al massimo in qualcosa, di certo non a volerci bene. Io stesso ho lottato – e lotto – con i miei sentimenti di invidia, frustrazione, gelosia. Cerco però di prendere quest’astio, che non porta a nulla, e buttarlo via per poi chiedermi: qual è il mio obiettivo nella vita? Vincere sul mondo? Per cosa vivo?»

Provi a sollevare la domanda delle domande.

«È un quesito complicato ma allo stesso tempo anche molto semplice. Nei momenti in cui si sta male si scoprono tutte le carte: cadono le infrastrutture e cerchi delle risposte. A quel punto è chiaro: vogliamo la serenità, la felicità».

Dalla selezione delle canzoni scelte per X Factor, sembra che lei non disdegni i temi delicati, come la depressione, la dipendenza da farmaci, i disturbi alimentari…

«In una recente canzone, Luca Carboni diceva che non si può parlare della morte in una canzone pop. Ha ragione: anche se suona assurdo, è difficile affrontare certi temi quando ci si rivolge a un pubblico mainstream… Al massimo si canta la sofferenza per essere stati lasciati. Ecco, personalmente mi piacerebbe andare un po’ più a fondo, esplorare meglio la vita in tutte le sue emozioni. Lo farei con leggerezza, di certo senza propormi come guida spirituale o mental coach!»

Si terrà dunque alla larga da testi espliciti sulla fede?

«Il cristianesimo non è nient’altro che la verità. Non a caso ci sono delle canzoni, scritte da atei, che sono profondamente cristiane. In famiglia sono sempre stato visto come quello “bravo” che va in Chiesa. Ma bravo in cosa? Conosco molte persone, lontane dalla religione, di gran lunga più cristiane di me. A volte penso che Dio si sia avvicinato a me solo perché mi doveva riprendere, altrimenti avrei fatto una brutta fine. Da giovane ero molto turbolento. La fede mi ha indirizzato. Non ho un innato senso di comunità, carità e solidarietà che trovo invece in altri».

Quando ha iniziato a frequentare la Chiesa?

«Da subito. Sono figlio di genitori divorziati, non particolarmente credenti, ma fin da piccolo mi affascinava l’idea che in Chiesa si suonasse. Ho iniziato così, unendomi al coro parrocchiale, per poi continuare. Tra l’altro la mia catechista era bravissima: se a scuola facevo dei gran macelli, a catechismo ero diligente perché mi interessava quello che si diceva. Il “dopo Cresima” è stata un’esperienza altrettanto esaltante: ho vissuto esperienze bellissime nella mia parrocchia».

Per esempio?

«La Giornata mondiale della gioventù di Madrid, nel 2011, con papa Benedetto XVI. Però l’esperienza che ha inciso maggiormente è stata la malattia di Chiara: una ragazza che era il collante del nostro gruppo parrocchiale. È morta di tumore, nel giro di pochissimo tempo. Quando succede una cosa così, c’è chi si sente tradito da Dio. Lei no: era serena, fino alla fine. Tutto il nostro gruppo ha vissuto la malattia insieme a lei, pregando e tenendole compagnia. È impressionante come la sua scomparsa ci abbia unito, riportandoci all’essenza delle cose. Dopo che è morta, eravamo tutti più attaccati alla vita: alcuni si sono sposati, io ho chiuso un rapporto sentimentale che non funzionava».

Quanto è importante avere dei riferimenti spirituali lungo il cammino di fede?

«Negli ultimi anni si è un po’ persa la figura del prete o del padre spirituale, eppure all’interno della Chiesa ci sono persone, anche giovani, preparate e profonde, che sono pronti ad accogliere il dolore umano e a tradurlo con l’amore di Dio».

Cosa cambia?

«Non allevia necessariamente il dolore, ma gli dà un nome. Solo così si può accettare la propria storia personale, che non sempre è chiara. Io mi confronto molto con un prete, si chiama padre Dominic».

Cosa replica a chi sostiene che la fede è un rifugio per le persone deboli che non riescono a reggere l’urto della vita?

«Esistono davvero persone forti nel mondo? Non penso. Una volta, ero andato a confessarmi da padre Antonio, un altro prete molto bravo e molto empatico, e ammisi che era da tempo che non pregavo. Mi ha chiesto: “Ah, e allora per cosa stai vivendo?”. È una domanda importante, che ora mi rifaccio spesso: per cosa stai vivendo? Dov’è il tuo cuore? Se non è con Dio, se non guardi verso l’alto, dove stai guardando? In basso? Ricordo ancora il confronto con don Antonio. Parlando con lui capii che il mio cuore era chiuso nelle cose, nell’ambizione. Mi chiese: “Come stai?”. La mia risposta fu: “Male”. Non fu necessario aggiungere altro: come le dicevo, è tutto molto semplice per certi versi... Per me la fede è questo: farmi tornare con i piedi per terra, farmi tornare alle priorità vere».

Non deve essere stato facile farlo durante X Factor.

«Invece è stata un’esperienza formativa, oltre che professionalmente decisiva. Finché sei in gara, vivi nel loft: da solo, senza famiglia, fidanzata, cellulare. Tanto per incominciare mi sono disintossicato dal telefono: non è poco. Ho inoltre letto I racconti del pellegrino russo, una bella storia di fede sul tema della preghiera continua. Infine credo di essere stato il primo concorrente ad aver fatto aggiungere all’ordine del giorno di X Factor la Messa alla domenica. Ci andavo insieme ad altri ed è stato come prendere una ventata d’aria fresca. Lì in chiesa, tra le panche e i bambini, eri solo Eugenio. Così, alla fine, i giorni più attesi erano due: giovedì, il giorno della diretta, e la domenica.

 

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