Occupazione, i dati: «Il 65% delle donne con figli piccoli non lavora»
da www.corriere.it
@Riproduzione Riservata del 30 ottobre 2020
La violenza contro le donne come «esito estremo delle disuguaglianze di genere». Maria Cecilia Guerra lo ha scolpito nero su bianco nella premessa al Bilancio di genere del ministero dell’Economia, a cui la sottosegretaria di Leu ha lavorato con determinazione durante i mesi dell’emergenza. Martedì 20 ottobre, illustrando slide, grafici e tabelle alle commissioni Bilancio riunite di Camera e Senato nel corso di un’audizione informale, l’economista ha spronato il governo a far presto: «Occorre urgentemente adoperarsi per estirpare le radici culturali che rendono la violenza contro le donne socialmente accettabile e la tengono sommersa». Stereotipi duri a morire, che rendono il mondo femminile più fragile e persino più esposto alla recessione da Covid: «Shecession», per dirla con un neologismo anglosassone. Stando all’ultimo Rapporto Caritas, le donne che hanno chiesto aiuto da maggio a settembre, subito dopo il lockdown, sono state il 54,4% contro il 50,5% del 2019.
E’ del 32,9% il tasso di part-time delle donne in Italia nel 2019. Per gli uomini la percentuale si limita all’8,2%. E il 51% degli italiani è d’accordo nell’affermare che «il ruolo primario della donna è occuparsi della cura della casa e dei figli»
«Il tasso di occupazione delle donne è di 18 punti percentuali più basso di quello degli uomini, il lavoro part time riguarda al 73,2% le donne ed è involontario nel 60,4% dei casi. I redditi complessivi guadagnati dalle donne sul mercato del lavoro sono in media del 25% inferiori rispetto a quelli degli uomini».
Le cause di questo divario?
«La ragione principale riguarda il peso del lavoro di cura dei figli, delle persone anziane non autosufficienti e delle persone con gravi disabilità, che grava sulle spalle delle donne e che è assolutamente sproporzionato fra i generi. Il 65% delle donne fra i 25 e i 49, con figli piccoli fino ai 5 anni, non sono disponibili a lavorare per motivi legati alla maternità e al lavoro di cura».
Il premier Giuseppe Conte si è impegnato in Parlamento a destinare «parte significativa» dei fondi del Recovery per implementare il lavoro delle donne. Parole al vento, o missione possibile?
«Il governo è assolutamente intenzionato a utilizzare parte dei soldi del Recovery per potenziare i servizi pubblici di cura, a partire dagli asili nido».
Pensa davvero che riuscirete a colmare la cronica insufficienza di servizi per i bambini più piccoli?
«Con una maggiore offerta di asili nido possiamo in un colpo solo raggiungere tre obiettivi. Ridurre i forti divari di opportunità di cura ed educazione fra bimbi, che favoriscono la riproduzione e l’ampliamento delle disuguaglianze sociali, economiche e territoriali. Alleggerire i carichi di cura che gravano sulle donne, favorendone una maggiore partecipazione al mercato del lavoro. E incrementare la domanda di lavoro in un settore dove è più alta la presenza femminile».
Sembrano tre miracoli, visto che ancora oggi il 51% degli italiani ritiene giusta l’affermazione «il ruolo primario della donna è occuparsi della cura della casa e dei figli». In che tempi lei ritiene realistico ottenere qualche miglioramento concreto?
«È importante agire in fretta, anche nell’ottica delle politiche rivolte appunto alla Next Generation. Tra le giovani donne è molto più diffuso il fenomeno dei Neet, i giovani fra i 15 e i 34 anni che non hanno un lavoro e non sono impegnati in corsi di studio e formazione. E qui il divario di genere è di circa 7 punti percentuali. Un’altra politica che troverà spazio già nella legge di Bilancio riguarda l’incentivazione alla imprenditoria femminile, anche attraverso un accesso privilegiato al credito».
L’Italia ha fatto molti progressi, eppure resta l’ultimo tra i 28 Paesi europei nel sanare i divari di genere nel mondo del lavoro, dove il reddito medio delle donne è il 59,6% di quello degli uomini a livello complessivo.
«Spero che vada presto in porto l’iniziativa parlamentare a favore della riduzione del gender pay gap, ( la differenza di retribuzione a parità di ruolo, ndr), anche attraverso una maggiore trasparenza nelle politiche retributive aziendali, che ne sono responsabili per almeno il 30%».
Lei è favorevole alle decontribuzioni, o altri sgravi per incentivare il lavoro femminile?
«Penso che queste politiche siamo meno efficaci rispetto al potenziamento dei servizi e possano avere effetti indesiderati. Si rischia di favorire l’alta concentrazione delle donne in occupazioni di scarsa qualità, perché spesso, per i forti problemi di conciliazione fra lavoro e vita privata, devono accettare impieghi più vicini a casa e con flessibilità di orario, anche se con retribuzione più bassa».
I fondi europei aiuteranno le donne italiane a fare altri importanti passi avanti verso una effettiva parità?
«L’intenzione del governo è di prevedere che i processi di definizione e successiva valutazione dei “Piani nazionali di ripresa e resilienza” del Recovery includano il più possibile valutazioni degli impatti di genere. Quanto ai passi in avanti, io ne vedo di significativi. Anche per aiutare a sconfiggere radicati stereotipi in un Paese in cui più di un terzo degli uomini e ahimè delle donne continua a ritenere che il successo nel lavoro sia più importante per l’uomo che per la donna e che gli uomini siano meno adatti a occuparsi delle faccende domestiche».