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Il ritiro sociale degli adolescenti: "Così rispondono a un orizzonte minaccioso. Servono nuove speranze"

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@Riproduzione Riservata del 30 novembre 2020
Il futuro, la scuola, la famiglia: centinaia di partecipanti al seminario formativo dedicato a indagare, attraverso l’intersecarsi di diverse prospettive, il fenomeno di ritiro sociale chiamato Hikikomori.-

Lo sguardo spento degli adolescenti che scelgono di ritirarsi dalla gara quotidiana per il successo e la visibilità è uno specchio nel quale gli adulti sono chiamati a riflettersi.
Uno specchio a partire dal quale riflettere non tanto sui ragazzi stessi che hanno deciso di abbandonare la gara, ritirandosi nelle loro stanze, ma sulla gara stessa e sulla crudeltà prescrittiva degli ideali che dettano il tracciato, predefinito, di una corsa che non ammette inciampi, cambi di direzione, soste o cadute.
Sono stati oltre 370 i partecipanti al seminario formativo dedicato a indagare, attraverso l’intersecarsi di diverse prospettive, il fenomeno di ritiro sociale chiamato Hikikomori per il quale sempre più adolescenti scelgono di chiudere ogni relazione con il mondo, lasciato fuori dalla porta della loro camera.
"Ciò che queste vite misteriosamente celano parla delle nostre vite, della durezza di percorsi predeterminati rispetto ai quali alcuni scelgono di trarsi fuori, abbandonando la scena di uno spettacolo con un copione prestabilito", osserva in apertura Michele Gagliardo, responsabile nazione della formazione di Libera che coordina il seminario Il ritiro sociale in adolescenza: sguardi per comprendere, promosso dal Consorzio Solidarietà Sociale di Parma, sostenuto da Fondazione Cariparma, in collaborazione con Ausl di Parma, Comune di Parma (settore educativo e sociale), Csv Emilia e Università di Parma.
Quelle vissute da tanti adolescenti, prosegue Gagliardo, sono storie di sofferenza ma anche storie di ribellione, "che ci ricordano che la vita è esplorazione, inseguimento di tracce diverse e di strade che possono essere anche sbagliate, rischiose, strade che vengono tentate per poi trovare direzioni possibili".
Il pomeriggio formativo, come nota Sara Manzini, responsabile del progetto per Consorzio Solidarietà Sociale, "è stato costruito in rete nella intenzione di esprimere una multi-competenza che metta in dialogo diverse prospettive per costruire una inter-visione del tema".
Per comprendere percorsi anche erratici, accidentati e non lineari che coinvolgono sempre più adolescenti, occorre uno sguardo empatico, accogliente e la capacità di svuotarsi delle proprie certezze per fare spazio all’altro.
Il primo sguardo su esperienze che fanno vacillare le certezze del mondo adulto viene portato da Fabio Vanni, responsabile programma adolescenza Ausl Parma, che offre una lettura psicologico-clinica di un fenomeno fortemente pervasivo e dai volti differenti: "Nell’affacciarsi all’adolescenza, oggi un dodicenne ha davanti a sé una prateria di opzioni indistinguibili, un labirinto senza mappa per percorrerlo: davanti a questo viaggio in cui le stelle polari sono costituite dai pari e non dagli adulti, il passo già incerto è molto sensibile alle frenate e ai colpi che riceve".
Mentre negli anni passati, quando l’orizzonte del futuro non era oscurato dall’ombra della crisi, una caduta era solo una prova da superare prima di raggiungere un obiettivo condiviso, "oggi una caduta o un errore assumono il valore di sintomo di non essere sulla strada giusta, di non essere abbastanza bravi o abbastanza belli rispetto a un ideale inesorabilmente cattivo in caso di scostamento. Oggi, ritirarsi assume il valore di smarrimento non solo della strada ma dell’obiettivo stesso".
Diversi i volti di questo fenomeno che non si presenta solo nelle forme estreme dell’autoreclusione: "Il ritiro è diffusissimo in ambito scolastico anche nella forma del cambiare scuola, nella scelta quotidiana di non mangiare più con i genitori o nel ritirarsi nella propria pelle dopo mesi di digiuno".
Il ritiro, nelle sue diverse forme, può essere letto come la risposta che l’adolescente mette in atto di fronte al disconoscimento sociale del proprio narcisismo, "la risposta a una relazione con il mondo sentita come minacciosa, una risposta tanto radicale quanto sterile oggi presente più nel genere maschile che in quello femminile".
Scomparire, per i maschi, è un atto che va letto nel suo nesso con la difficoltà a trovare uno spazio definito per riconoscersi, prosegue Vanni: "La posizione dei maschi oggi non è risolta, l’orizzonte nel quale collocarsi è indefinito; se per le ragazze l’identità femminista, egualitaria, reattiva alla sottomissione, rappresenta uno spazio identitario di genere in cui riconoscersi, i maschi non possiedono uno spazio identitario che li accomuni in positivo ma solo in negativo ovvero indicando come non essere: dominatori, violenti, aggressivi. L’adolescente che si affaccia alla domanda su che uomo voglia diventare fa fatica a trovare una linea di condotta sicura e condivisibile".
Il ritiro può essere letto come il segnale che "non si riesce più a stare in una relazione apprenditiva con il mondo e che ci serve chiudere il ponte levatoio del nostro personale castello; in alcuni casi la vita successiva avverrà tutta all’interno delle mura, in altri casi l’evitamento sarà più selettivo, in altri ancora l’adolescente resterà ancora un po’ a guardare dal parapetto la vita degli altri scorrere, prima di tuffarsi. Per tutti si tratta di un passaggio non semplice e non scontato", conclude Vanni.
Allargando il campo all’orizzonte del linguaggio, e di pensiero, entro il quale sono cresciuti i bambini che oggi si affacciano all’adolescenza, Stefano Manici, docente di scuola secondaria, formatore e educatore, osserva che "la parola più ascoltata dai nostri ragazzi è ‘crisi’ mentre noi siamo cresciuti nel paradigma della speranza".
Rispetto a un futuro che è mutato da orizzonte promettente sul quale proiettare speranze e sogni a prospettiva carica di un senso di minaccia, "è necessario cambiare sguardo e ricominciare a costruire utopie. Troppi adulti attivano uno sguardo solo giudicante ma bisogna provare a destrutturare il setting autoritario".
Dal punto di vista del pedagogista, Manici osserva che "non è possibile avere studenti che a scuola si annoiano per cinque ore o continuare a respingere il 60% degli studenti al primo anno di istituto tecnico: la scuola non può essere solo istruttiva ma deve essere educativa".
Se i ragazzi chiedono di essere ascoltati, sempre di più l’ascolto viene delegato dal mondo adulto sempre all’esterno: “la famiglia delega la scuola e la scuola delega l’ascolto all’esterno, all’esperto psicologo. I nostri ragazzi si sentono invisibili".
È necessario immaginare figure educative che sappiano sostare con i ragazzi, con tempo e pazienza, senza paura dell’errore: "Dobbiamo saper vagare con i ragazzi senza paura di perderci, mostrando loro che esiste anche una dimensione utopica".

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