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Viviamo immersi nei nostri tablet, alla continua ricerca del nulla

di Caterina Serra
L'utilizzo sempre più invasivo di "tavolette" e smartphone mostra come siamo costantemente a caccia di una fuga dal nostro mondo. Il prossimo passo saranno le bambole 3d?.-
La prima volta che qualcuno si è messo a pensare il mondo, ha preso una tavoletta e ci ha disegnato sopra. Tutto quello che sapeva era che non lo vedeva tutto, e che forse a conoscerlo non ci sarebbe mai riuscito. Anassimandro, che faceva il cartografo e il filosofo, ha deciso allora di appiattirlo su un unico piano, di ridurlo alle due dimensioni che una tavola concede così da poterlo guardare. Poi sarebbe venuta la carta. Poi, il tablet.
Stessa forma lineare, stessa superficie piatta, ma un diverso rapporto con il reale, bidimensionale come una tavola ma scorrevole come una porta che si apre sull’universo tutto intero, e lo rivela nella sua spazialità. E perfino materialità, capace com’è di simularla.
Sembra così che tutto si trovi lì, pronto a farsi afferrare, disposto a farsi attraversare e perfino possedere. Si è convinti di far parte di quel tutto, di poterci vivere dentro. Come tanti Alice attraversiamo lo schermo-specchio con la mente, ma ci sembra di farlo col corpo, in modo quasi magico, con facilità e rapidità, dimentichi dello spazio intorno, del tempo speso in quell’oltre.
Eppure. Cosa ci fa decidere di essere sempre connessi? O forse non decidiamo affatto?
Ce lo teniamo sempre in mano questo mondo-tavoletta, vogliamo esserci dentro pure noi, dentro una realtà eventuale, senza il peso della sua materialità, corpi senza peso, forse per dire senza il peso della nostra mortalità.
Per narcisismo? Quella forma di narcisismo increspato, irrisolto, che fa pendolare dallo schermo alla realtà, mai sicuri che l’immagine riflessa sia quella voluta, desiderata, amata. Si potrebbe anche parlare di vanità. Della vanità di quel tutto, effimero, immateriale, che per il fatto stesso di scivolarci tra le dita fa pensare di restare sempre indietro, di essersi persi qualcosa, abbandonati a un senso di frustrazione cui non sappiamo risolverci. Una forma di attaccamento, se non di dipendenza, dovuto alla presunzione o all’imposizione di doverlo afferrare, di doverlo fare nostro, quel flusso impalpabile. Come a dire, se ci stacchiamo, ci stacchiamo anche da qualcos’altro, qualcosa che sembra lì per noi, che pare risuoni di noi, notte e giorno, dappertutto. Qualunque cosa sia.

Purché ci distragga. Ci diverta. Distrazione e divertimento, parole sorelle, le usiamo quasi indifferentemente, divertirsi che è cambiare direzione, e distrarsi che è portarsi altrove, entrambe per dire deviare la mente, stornarsi, potremmo anche dire stonarsi. È la formula tecno-magica del mondo appiattito a tavoletta: fluidità, imprendibilità, superficialità.

Che ci importa se a cercare di capire chi siamo è un software, o meglio, un soft-capitalismo, che vuole, solo, venderci qualcosa di sempre più adatto a noi, conforme ai nostri gusti, i nostri modi di fare, di vivere, che vuole compiacerci, e piacerci, if you like this you like that, che ci precede, ci prefigura, rendendoci prevedibili, scontati, obbedienti - l’inatteso, l’insolito, nemici giurati di ogni profilo identitario che ci diamo. Disposti a perdere e a perderci, condannati a cedere tutto, dati, contatti, messaggi, foto, parti intere di vita, tutto il nostro giardino segreto, per amore, o nostalgia, di un giardino d’infanzia che ci vuole tutti un po’ infantili, adolescenti, a giocare a tutto, e su tutto, superficiali, certo, ma divertenti, distratti dal gioco stesso, intenti a sorridere e piangere con un clic - pollici facce cuori, pezzi di corpi come parti per un tutto assente e disincarnato. Un nulla di cui, pare, ci siamo innamorati. Tanto è gratis, anzi, perché è gratis. O meglio, sembra, visto che il prodotto in vendita siamo noi.

Matt McMullen ideatore e costruttore di bambole di silicone, che lui chiama “real doll”, bambole vere, reali e completamente irrealistiche, con pezzi di carne e parti genitali del tutto simili per consistenza e colore a quelle umane, sta progettando e costruendo sex robot, dotati di un’intelligenza artificiale che dona alle bambole palpebre che sbattono, bocche che si aprono anche per parlare e sorridere, sensori che reagiscono al tatto per darci la sensazione di essere stati capaci di eccitare perfino un robot. Il prototipo si chiama Harmony, e armonico deve essere il rapporto tra chi compra e la doll scelta: armonico perché perfetta la sua compagnia, docile, sottomessa, l’estetica di una pornostar e sempre, sempre, sexually available, sessualmente disponibile.

Le mie real doll sostituiranno gli smartphone, dice Matt McMullen, e così faranno in generale i robot quando entreranno nelle case. Cosa cerchiamo in un tablet, in fondo? Compagnia, sesso, vogliamo distrarci dai problemi, dalla noia. A breve, non avremo più bisogno di essere connessi, di piacere, di avere amici che non sai chi sono, di condividere il nostro mondo emozionale con qualcuno che non è nessuno, tutto sarà legato a un corpo che ognuno potrà costruire pezzo per pezzo, che sarà esattamente come ci piace, che riderà e parlerà come e quando vogliamo, che sarà sempre disponibile, che sarà lì per noi, che non se ne andrà mai - far camminare una robot doll pare sia la cosa più complessa e costosa da farle fare, e in fondo anche la meno desiderabile, chi vorrebbe comperare una donna che se ne può andare via?

Curvilinea, questa volta, la nostra superficie, tridimensionale, silicone e schede per cervello, parole programmate, e pochi semplici gesti, niente complicazioni, nessuna complessità. Fine della tabula inizio della fabula.

A farci divertire, a deviarci dal nulla in cui potremmo infilarci con la mente. A far compagnia in questo mondo, reale, che sembra non divertire più. Un robot dopo il tablet, il mondo in un corpo, quello di una donna. Si comincia sempre con Eva.
da www.espresso.repubblica.it
@Riproduzione Riservata del 10 agosto 2017

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