MARIAPIA BONANATE: "DALL'INFERNO DELLA SCHIAVITÙ ALLA RINASCITA, ECCO LA STORIA DI JOY"
di Giulia Cerqueti
Intervista alla giornalista, scrittrice, editorialista di "Famiglia Cristiana", autrice di "Io sono Joy. Un grido di libertà dalla schiavitù della tratta", con la prefazione di papa Francesco. Il libro ripercorre il calvario vissuto da una giovane migrante dalla Nigeria fino all'Italia, attraverso le atrocità dei lager libici, le violenze, i ricatti, lo sfruttamento sessuale, fino alla conquista della libertà.-
Foto di Roberta Cappelli: una delle ragazze della comunità Casa Rut che lavorano nella sartoria etnica "New Hope"
Partita dalla Nigeria a febbraio del 2016, Joy ha vissuto l’inferno: la traversata del deserto, le minacce, la brutalità dei trafficanti senza pietà, la detenzione nei lager libici, dove subisce violenze, stupri ripetuti, trattata come merce di scambio, schiava del sesso. Poi il viaggio nel Mediterraneo su un barcone, l’arrivo in Sicilia. E qui, in Italia, una seconda Libia: a Castel Volturno (Caserta) la donna nigeriana che avrebbe dovuto accoglierla come una figlia e darle un lavoro regolare, la ricatta e la costringe ad andare in strada a prostituirsi, affibbiandole il nome di Jessica. «Io non ero più una persona», racconta oggi Joy. L’unico sostegno per lei la sua profonda fede in Dio. Joy ha avuto la forza e il coraggio di liberarsi dalle catene della schiavitù e di denunciare. Si è rivolta alla polizia ed è stata accolta da suor Rita a Casa Rut. Ha ripreso in mano la sua vita calpestata, fatta a pezzi, ha provato a ricucire le ferite del corpo e dell’anima. A Casa Rut Joy ha vissuto una rinascita, grazie a persone che l’hanno rispettata, ascoltata, protetta.
«Io conoscevo il problema della tratta», racconta la Bonanate, «con la Comunità Papa Giovanni XXIII ero stata nelle campagne piemontesi, dove ragazze giovanissime sono costrette a prostituirsi per la strada. Mi ero portata dentro alcune immagini di quell’inferno. A Caserta suor Rita mi ha accennato la vicenda di Joy. Mi sono sentita particolarmente responsabile della testimonianza di questa ragazza e ho pensato di raccontare la sua storia in un libro. Ne ho parlato prima con suor Rita, poi con Joy». Lei, ragazza vivace e determinata, ha accettato con coraggio. È nato così Io sono Joy. Un grido di libertà dalla schiavitù della tratta (Edizioni San Paolo), nelle librerie dal 25 gennaio. La prefazione è firmata da papa Francesco, che sente profondamente il problema delle donne vittime della tratta, ha incontrato Joy e le ragazze di Casa Rut con suor Rita Giaretta. La postfazione è della giornalista e scrittrice Anna Pozzi. Un libro straziante, commovente, necessario, nato in casa della Bonanate a Torino: Joy ha trascorso un paio di settimane con lei, condividendone la quotidianità. «Le donne africane hanno una forza e una dignità incredibili», osserva la scrittrice. «Io vedevo la sua gioia, ma nello stesso tempo un’ombra di paura e di amarezza nello sguardo. Insieme, tenendoci quasi per mano e guardandoci negli occhi, abbiamo cercato di ripercorrere la sua vita, a partire dalla sua infanzia. Lei non parlava ancora bene l’italiano, ogni tanto si esprimeva in inglese, ma io mi sono talmente immedesimata nella sua storia che mi bastava solo una sua parola, i suoi occhi che a un tratto si riempivano di lacrime, per capire tutto. A volte sentiva il bisogno di ritirarsi per un po’ in camera. Io avevo quasi timore di chiederle alcune vicende molto dolorose, come quella di Grace, una ragazzina di 13 anni, sua compagna di detenzione, morta a causa delle violenze subìte. Ma lei mi diceva: “No Mariapia, non preoccuparti. Io ho promesso a me stessa che avrei denunciato”».
Per Mariapia Bonanate Joy è diventata una di famiglia: «Anche le mie amiche a Torino le vogliono un gran bene». Per lei oggi è un po’ come un’altra figlia. L’8 febbraio - festa di Santa Giuseppina Bakhita, la religiosa sudanese che conobbe le sofferenze della schiavitù - ricorre la Giornata mondiale di preghiera e riflessione contro la tratta voluta da papa Francesco. «Sono arrabbiatissima perché l’Italia continua a chiudere gli occhi davanti alle atrocità che vengono compiute nei campi di detenzione libici», aggiunge la scrittrice. «Una situazione che non può più essere accettata».