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Siamo diventati scettici e creduloni

di Massimo Gramellini

Le spiagge di Ferragosto dedite al santissimo rito della rosolatura collettiva non sembrano troppo scosse dalle notizie sulla fine del mondo che milioni di telefonini unti di olio abbronzante si ostinano a diffondere sotto gli ombrelloni. C’è stato un tempo in cui, quando un dittatore comunista e il presidente degli Stati Uniti si scambiavano minacce atomiche, nessuno dubitava che facessero sul serio. Oggi li si ascolta con la degnazione divertita che merita un bisticcio fra bulletti al bar. Sui siti web, i titoloni che li riguardano, accompagnati dalla foto delle loro maschere facciali, campeggiano accanto all’ultimo balletto di Vacchi - produttore di fama, nel senso che la sua fama è l’unica cosa che produce - ed è evidente che per il lettore medio hanno la stessa consistenza. Con una differenza: il balletto di Vacchi attira molti più contatti.

Su Kim e Trump aleggia una sensazione di improbabilità, come del resto su qualsiasi altro attore della politica mondiale, eccettuati forse i leader russi e cinesi, percepiti ancora come seri. Nessuno crede più veramente che alle parole possano seguire dei fatti e ai fatti delle conseguenze concrete. È la psicologia dell’autista Atac, la società romana di autobus ridotti a carcasse che viaggia verso il fallimento nella totale incredulità dei suoi dipendenti, convintissimi che prima o poi qualcuno ci metterà una pezza. Pensano che alla fine non succederà nulla. E che, se anche succedesse, nessuno potrebbe farci niente.

L’improbabile a braccetto con l’ineluttabile, che è poi l’atteggiamento con cui molti si accostano ai pericoli ambientali. L’astrofisico Stephen Hawking che, sia pure esagerando per amore di provocazione, predice l’aumento delle temperature terrestri ai livelli insostenibili di Venere ottiene meno spazio e molta meno attenzione dell’astrocialtrone David Meade, il rabdomante di complotti galattici secondo cui un pianeta misterioso si abbatterà sulla Terra il 23 settembre prossimo. Il 24 nessuno gli imputerà il mancato avveramento della profezia e lui, impavido, si metterà immediatamente a vaneggiare la successiva. L’aleatorietà del messaggio che galleggia per pochi secondi sul nostro smartphone ne garantisce la rapida dimenticanza e offre al suo autore la certezza dell’impunità. Lo hanno capito persino i suprematisti bianchi d’America, che all’epoca della carta stampata e della tv avevano la prudenza di girare incappucciati, mentre in questi giorni si muovono a volto scoperto, nella convinzione che anche chi li detesta si dimenticherà di loro all’arrivo del prossimo balletto di Vacchi.

La democrazia del web - dove tutto è uguale a tutto, nonostante sia a disposizione di tutti, o forse proprio per questo - è una conquista formidabile, ma come tante altre conquiste ha lasciato sul terreno alcuni cadaveri. Uno è la scomparsa dell’autorevolezza, frutto malato del Sessantotto che la rivoluzione tecnologica ha portato alle estreme conseguenze. Nel 2011 migliaia di romani trascorsero la notte all’addiaccio per paura di un mega-terremoto contrabbandato dai seminatori di paura, malgrado tutti gli esperti ne avessero categoricamente escluso la possibilità. Ma, nell’appiattimento dei pulpiti, gli esperti hanno perso l’aura di sacralità che li circondava e si ritrovano a discutere alla pari con persone senza altro titolo che il seguito popolare che certe teorie garantiscono loro sul web.

Solo i nostalgici di un passato che nel ricordo sembra più bello perché coincide con il tempo della loro gioventù possono negare che la velocità pervasiva della Rete spalanchi opportunità finora impensabili. Però ogni comunicazione troppo veloce diventa inevitabilmente più superficiale. E produce per reazione uno stato d’animo che potremmo definire «scetticismo credulone». Ci si deve difendere dalla scomparsa di una gerarchia nei messaggi, dall’eccesso di quelli allarmanti (l’ultimo, fresco fresco, riguarda le uova) e dal bombardamento di emozioni ad alta intensità e brevissima durata. Così l’uomo contemporaneo si è cucito addosso una corazza di cinismo e ha tacitato la sua innata capacità di stupefazione. La parola «ingenuo», che in latino significava libero, adesso indica uno stupido. Eppure il bisogno insopprimibile di credere in qualcosa ci spinge ancora a prestare orecchio a chi sa proporsi con l’aureola del cane sciolto e del perseguitato per spacciarci sogni e complotti che ci aiutino a sentirsi dalla parte giusta. È cosi che si finisce per credere poco a tutto, ma tantissimo in qualcosa, purché sia incredibile.

da www.corriere.it

@Riproduzione Riservata del 13 agosto 2017

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