Superare l’egemonia dell’io per debellare l’odio
di Mauro Magatti
L’odio e la violenza sono tristemente parte della nostra vita quotidiana: dal terrorista isolato che si inventa un attentato ai fatti di sangue che si succedono per futili motivi in strada o in famiglia; dagli insulti gonfi di odio che circolano sui social network fino alla manifestazione dei «primatisti» bianchi che, nella civile America, non hanno alcuna remora a urlare pubblicamente il loro risentimento verso ciò che é altro. La preoccupazione, se non proprio la paura, ci tocca tutti. Il male sembra più forte, capace di colpire ovunque, senza alcuna zona franca. Sbaglieremmo, però, se pensassimo che alle nostre spalle c’è un’età dell’oro pacificata, priva di tensioni. Barbarie e civiltà si misurano da sempre, in una lotta senza fine. Ma dire questo non basta, se non ci sforziamo di capire qual è la posta in gioco della fase storica che stiamo vivendo. È dagli anni 70 che i principali studiosi della società hanno insistito sulle patologie dell’individualismo radicale diffuso come dogma globale. Forse solo adesso — momento in cui gli equilibri squilibrati del sistema non reggono più — ci accorgiamo che quelle analisi colpivano nel segno. Le scorie problematiche della incredibile stagione espansiva che é alle nostre spalle vengono ora a galla. Ma non disponiamo né della cultura né delle istituzioni adatte per gestire adeguatamente i problemi che ne conseguono. É nei momenti di sbandamento che il peggio dell’umano tende a riemergere. E noi ci troviamo proprio in una fase di questo tipo: per citare Shakespeare, «time is out of joint» («il tempo è fuori dai cardini»).
Non è la prima volta, non sarà l’ultima. E tuttavia, come sempre, non c’è solo questa spinta distruttiva. Parallelamente alla distruzione si va sviluppando anche una nuova sensibilità più relazionale e capace di una responsabilità vista non come un dovere imposto da una qualche autorità, ma come piena espressione della propria libertà. Responsabilità verso l’ambiente: anche se si fa ancora troppo poco, sono sempre di più i cittadini consapevoli che si debba cambiare sistema. E responsabilità verso gli altri — a partire, per stare alla cronaca, dagli stranieri. Cito solo due sintomi che mi paiono importanti. Il primo riguarda i discorsi pubblici fatti di recente dai più autorevoli imprenditori del nostro tempo. Sentire il discorso di Tim Cook al MIT o quello di Mark Zuckerberg ad Harvard fa impressione. Si dirà: sono solo parole. É vero. Pur tuttavia esse segnano una direzione ben precisa, nella quale le imprese più avanzate mostrano di voler investire. Tanto che alle parole sono seguiti anche i fatti: proprio in questi giorni, sia l’uno sia l’altro hanno preso pubblicamente posizione contro la tiepida risposta di Trump ai fatti di Charlottesville.
Il secondo sintomo viene dai giovani: qui le ricerche dicono che il profilo social dei millennials tende a produrre un prisma valoriale un po’ diverso, meno centrato sull’Io e più interessato alla relazione. La verità è che siano vicini a un nuovo snodo: andare oltre l’individualismo radicalizzato e i suoi limiti. Nell’incertezza nella quale ci troviamo, affiorano dunque spinte potenti di imbarbarimento. Non più libertà, ma più controllo; non più scelta, ma più chiusura; non più tolleranza ma più violenza. Dall’altra parte, cresce anche una nuova sensibilità sociale e ambientale che però ha bisogno di innovazioni istituzionali profonde per potersi sostenere e permetterci di riassorbire i molteplici focolai di tensione dai quali sprigiona tanto odio. Se questa é la nuova alternativa, essa non è però immediatamente riconducibile all’asse destra e sinistra. Perché se è vero che la destra può essere risucchiata dai gorghi sicuritari, non è affatto detto che la sinistra sia in grado di dare risposte adeguate ai problemi in campo. Prigioniera come é di schemi ormai superati. Allo stato in cui siamo, nessuna delle due polarità politiche sembra riuscire a interpretare il nuovo che pure c’è.
L’alternativa é culturale prima che politica. Come fu tra gli anni 60 e 70, quando con la perdita degli equilibri del dopoguerra si liberarono le energie individuali, mettendo in gioco sia la destra che la sinistra. Ad andare nella direzione che tutti desideriamo potranno essere forze più moderate o progressiste. Dipenderà da molti fattori, oltre che dalla intelligenza dei leader. Di sicuro, le cose non potranno essere più come le abbiano conosciute negli ultimi decenni. Delle due l’una: o accettiamo di incattivirci; o ci decidiamo a costruire modelli di convivenza capaci di non limitarsi a parlare il linguaggio dell’io. Modelli, cioè, in grado di riassorbire l’enorme latenza psichica generata dalla condizione nella quale ci troviamo: la somma di milioni di individui non basta per fare una società.
da www.corriere.it
@Riproduzione Riservata del 21 agosto 2017