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Pellai: «Come possiamo insegnare regole e limiti ai nostri figli se siamo i primi a postare le loro foto sui social?»

di Chiara Bidoli
da www.corriere.it
@Riproduzione Riservata del 15 aprile 2023

Intervista allo psicoterapeuta sui rischi della condivisione di immagini e dati sensibili online. «Lo “sharenting” è un’interferenza sulla spontaneità degli eventi, che vengono interrotti perché devono diventare un’immagine o un video».-

Pellai: «Come possiamo insegnare regole e limiti ai nostri figli se siamo i primi a postare le loro foto sui social?»
Alberto Pellai

In questi giorni si parla tanto di «sharenting», l’abitudine di condividere sui social le foto dei figli minori. La Società Italiana di Pediatria ha appena pubblicato uno studio sui rischi di questa pratica. Alberto Pellai, medico, psicoterapeuta dell’età evolutiva e ricercatore al Dipartimento di Scienze bio-mediche dell’Università degli Studi di Milano cosa ne pensa?

«I nostri figli sono dentro una relazione che per loro dev’essere protettiva. Uscire dalla protezione significa che attivamente vanno fuori ed esplorano; noi, come genitori, generiamo dei contesti di esplorazione che sono funzionali ai loro bisogni di crescita. Quando li mettiamo nel territorio dell’online per il loro bisogno esplorativo lì dentro non c’è niente, è uno spazio di esibizione che in realtà è funzionale ai bisogni del genitore. In molti casi infatti viene fatto lo “sharenting” senza la presenza del bambino, ma per stare connessi con il bambino. Può capitare, per esempi

o, che durante una giornata di lavoro mamme e papà condividano foto dei figli pescati dalla gallery del cellulare, mossi dal desiderio di mantenere viva la relazione anche a distanza. È una mossa affettiva ma anche ingenua perché si porta dietro delle conseguenze».

Quali sono i rischi?
«Questo genere di azioni rende il bambino visibile, localizzabile,

riconoscibile, con diverse informazioni legate al nucleo familiare e sono contenuti che poi sono a disposizione di tutti. È paradossale, ma ciò avviene in un contesto di società dove abbiamo aumentato la dimensione della privacy e della protezione del minore, tanto che anche la scuola per condividere una foto di nostro figlio deve chiederci prima l’autorizzazione. Non le sembra strano che da una parte venga chiesto alla comunità di non esibire mai l’immagine dei minori in nessun contesto, salvo le approvazioni del caso, dall’altra si pubblichi online senza problemi?».

I bambini di oggi, così socialmente esposti, replicheranno quanto hanno visto fare dai genitori?

«Ci sarà un momento in cui i nostri figli diventeranno padroni della loro identità e immagine. E il tema è: che cosa ci diranno? Quali sono i significati che loro stessi daranno all’utilizzo delle loro immagini per dei fini che non hanno negoziato? Questo è un aspetto che a volte i preadolescenti e adolescenti portano già come problematica. Noi genitori, nella logica dell’educazione digitale dei figli, dovremmo essere anche dei buoni modellatori di competenze relative al loro esibirsi, al come e quanto mostrarsi quando entrano nei social e dovremmo fornire loro la dimensione della limitazione, dell’autoregolazione, dell’essere attenti a cosa si pubblica. Vista così, è un ruolo che ci siamo giocati male. Come possiamo insegnare ai nostri figli regole e limiti se abbiamo già prima creato un fascicolo digitale con le loro immagini consultabili da tutti? Non siamo coerenti. I bambini e i ragazzi ci osservano e costruiscono le loro abitudini, abilità e competenze basandosi su quello che vedono fare da noi».

Chiedere di continuo a un bambino di fermarsi per fare una foto e un video interferisce con la sua libertà di agire?
«Se abusato, lo sharenting è un’interferenza che contrasta la spontaneità e naturalità degli eventi, interrotti perché devono diventare un’immagine o un video da fissare dentro una memoria digitale. Lo schermo che si interpone tra noi e l’altro spesso interrompe o frantuma la raccolta della memoria emotiva delle cose. Il secondo aspetto è che genera una fragilità narcisistica del bambino perché lo abitua a immaginare che tutto ciò che fa ha valore solo nel momento in cui viene impresso, condiviso, guardato. Alla fine lui stesso diventa promotore di situazioni in cui il valore non è che cosa sta facendo, ma se quello che sta facendo può metterlo da qualche parte, imprimere in qualche memoria digitale. Un elemento chiave da un punto di vista psicologico o della relazione è che ogni volta che c’è uno schermo che fa da mediatore tra lo sguardo del bambino e quello dell’adulto, quello schermo interrompe. Il gioco di rispecchiamento dello sguardo è importantissimo per il bambino. Pensiamo alla classica recita a scuola. I bambini fanno i saggi e il valore di quel saggio è che il bambino si vuole sentire guardato, mentre ora quando i bambini guardano verso i genitori vedono solo schermi accesi e devono immaginare che il genitore sia dietro lo schermo. Questo ha anche a che fare con l’intensità emotiva con cui mettiamo via i ricordi. Metterli dentro al cellulare o dentro la mente e il cuore, quando si è immersi in un’esperienza e la si vive davvero, è ben diverso».

Servono leggi più restrittive?
«La legge già propone agli adulti una direzione, se pensiamo a tutto quello che dobbiamo firmare per la tutela della privacy dei nostri figli. Quando le foto producono un reddito stiamo sfruttando un minore per uno scopo che non è funzionale al suo bisogno di crescita, portando il minore in un territorio che non ha scelto e che non dà a lui alcun vantaggio, ma solo vantaggi agli adulti. Su questo servirebbero tutele, sul resto serve una sensibilità che aiuti i genitori a sapere che ci sono dei limiti e cose che è meglio non fare. Da un punto di vista educativo un ragazzino cresciuto con dei genitori che hanno protetto la sua immagine da piccolo, probabilmente approccerà i social con maggiore attenzione e consapevolezza».

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