“I Genitori non devono combattere le battaglie dei figli. A scuola insegniamo il saper essere e non solo il saper fare”. INTERVISTA a Alberto Pellai
di Fabio Gervaso
da www.orizzontescuola.it
@Riproduzione Riservata del 20 aprile 2024
Qual è il ruolo delle emozioni in educazione ed in particolare perché non bisogna reprimere le emozioni anche se negative? Ne abbiamo parlato con il dott. Alberto Pellai, medico, psicoterapeuta dell’età evolutiva e ricercatore presso la facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi di Milano, esperto di prevenzione in età evolutiva ed è autore di molti volumi per bambini, genitori e insegnanti.
Dottor Pellai, possiamo affermare che i giovani sono lo specchio della società in cui crescono. La famiglia e la scuola rappresentano i due principali istituti educativi, eppure entrambi vivono una profonda crisi. Come stiamo educando i nostri ragazzi e come correggere il tiro partendo dalla valorizzazione dell’educazione emotiva?
Penso che la fragilità che vediamo oggi in effetti è un po’ paradossale, perché siamo la prima generazione di adulti che si è davvero tanto occupata di crescere i figli felici, di garantire e tutelare il più possibile la felicità dei soggetti in età evolutiva e paradossalmente adesso ci troviamo in realtà una generazione di adolescenti che è in profonda crisi e che ha indicatori di salute emotiva e mentale molto affaticati, in alcuni casi molto compromessi. Il problema non è tanto chiedersi cosa non abbia funzionato, perché credo che in realtà gli adulti abbiano fatto tutti gli sforzi che dovevano essere fatti, ma allo stesso tempo non hanno tenuto sotto controllo alcune profonde modificazioni, variazioni degli stili di vita, che hanno pervaso poi in modo intenso il modo di stare al mondo e di crescere delle bambine e dei bambini, delle ragazze e dei ragazzi. C’è stata una grande concentrazione sul potenziale del sapere e saper fare, scuola e famiglia si sono attrezzate tantissimo per permettere ai nostri bambini e ragazzi di apprendere molte cose in più rispetto alle generazioni passate, ma in realtà poi non c’è stata un’equivalente cura del saper essere, quindi quello che è accaduto è che mentre venivano formati e addestrati a tante nuove abilità e competenze, quei giovani così preparati venivano in realtà fatti crescere in luoghi ristretti e chiusi, complice anche il Covid. Sono stati molto dentro le loro stanze, sono stati poco nel mondo esterno, hanno ridotto i loro compiti di socializzazione, la quantità e la qualità delle relazioni che vivono e questo ha avuto poi un impatto molto forte sulla loro competenza emotiva, sulla costruzione del senso di sé, sulla generazione di un’identità ritenuta valida e funzionale sulla percezione del loro protagonismo. Paradossalmente alcuni nostri studenti e studentesse si sentono quasi più validi ed efficaci nella vita virtuale, che è una vita che non c’è, rispetto alla vita reale che è invece la vita che devono imparare ad abitare. Probabilmente anche la crisi che stiamo vivendo adesso ci fornisce delle indicazioni e dei ripensamenti a cui non possiamo sottrarci se vogliamo sostenere in modo adeguato la crescita delle future generazioni.
Viviamo sempre meno nella relazione, questo, soprattutto in età evolutiva, può rappresentare un grave problema nella conoscenza e nella formazione della persona. Luoghi di incontro e socializzazione come la scuola rappresentano un elemento sempre più importante per la crescita anche emotiva. Quanto sono importanti questi aspetti?
Sono molto importanti, in realtà noi siamo dotati per definizione di una mente che è interpersonale e che costruisce il proprio benessere esclusivamente nella relazione con gli altri. È molto difficile conquistare la felicità nell’esperienza della solitudine e dell’isolamento. Per qualcuno è possibile, ma è possibile farlo dopo aver avuto un’intensa capacità di stare in mezzo agli altri, ecco che poi può esserci anche la fase della solitudine. Di sicuro in età evolutiva, invece, è fondamentale che i bambini ed i ragazzi socializzino, qua l’aspetto più inaspettato è che per alcuni di loro la scuola è l’unico luogo di socializzazione, cioè un’agenzia educativa in cui si entra, si socializza e si apprende, però all’interno di una cornice che propone un supporto formalizzato alla crescita; c’è poi tutto l’aspetto legato alla dimensione informale del vivere, del crescere, del relazionarsi con gli altri, una dimensione che ha bisogno dei luoghi di aggregazione, di relazionalità informale, di aspetti che non sono addestrativi ma sono esplorativi di esperienze di gioco, che non sono all’interno della logica della struttura di uno sport, per esempio, ma che sono modalità con cui i bambini prima ed i ragazzi poi si mettono in relazione, si intrattengono, passano il tempo, imparano a socializzare, generano relazioni e poi magari entrano dentro i conflitti per poi riparare la relazione, ricostruire l’intesa con l’altro. Tutto questo cantiere della crescita, che poi è il cantiere del saper essere, effettivamente è molto ridotto e tra l’atro la scuola si trova implicitamente ad essere l’unico cantiere in cui queste cose avvengono e possono avvenire, in questo momento è davvero un luogo di importanza cruciale perché oltre a svolgere le proprie funzioni di sostegno alla crescita e all’apprendimento è un vero e proprio luogo di sanità pubblica, nel senso che è quel luogo che tutela e garantisce ancora a bambini e ragazzi di trovarsi insieme ad altri, di compiere quelle funzioni di socializzazione così importanti. Però, riagganciandoci anche alla risposta precedente, noi adulti dobbiamo acquisire nuove consapevolezze rispetto a tutta una serie di bisogni, come la scomparsa dei cortili, la scomparsa dei bambini nei parchi e la scomparsa dei luoghi della città che erano preposti alla socializzazione dei bambini e dei ragazzi. Oggi se gli adolescenti si devono trovare da qualche parte c‘è sempre un biglietto da pagare, una consumazione che viene resa obbligatoria, e tutto questo non fa bene alla crescita.
Ci è stato insegnato di rincorrere sempre la felicità, quando invece il nostro equilibrio emotivo, la nostra omeostasi emotiva, si raggiunge dal giusto bilanciamento delle emozioni contrapposte, come il piacere ed il dolore. Come accettare ed educare anche le emozioni negative?
Direi che intanto essere felici, come dice la domanda, non significa sorridere sempre. La persona felice non è la persona che ha tutto, ma quella che costruisce un equilibrio intorno a quello che ha e a quello che gli accade e la vita accade con tutto il bello e il brutto. L’idea di tenere fuori il brutto dalla vita delle persone è un’idea senza senso, tant’è che poi noi siamo in effetti dotati di sei emozioni primarie di cui quelle che ci procurano fatica e disagio sono doppie rispetto a quelle che ci procurano invece benessere ed agio. Nelle emozioni primarie abbiamo felicità e sorpresa, che sono chiaramente emozioni che da subito ci fanno stare bene, mentre poi abbiamo rabbia, tristezza, paura e disgusto che sono invece emozioni che ci procurano disagio, una fatica che spesso ci procura malessere. Ecco che il tema grande è che essere felici non vuol dire non essere mai tristi, impauriti o arrabbiati, ma vuol dire che quando entro in queste emozioni io so riconoscerle, renderle valide, attribuire ad esse un significato, attraversarle e superarle e non bloccarle e negarle, che è un’operazione impossibile; per cui il giusto bilanciamento è permettere alla vita di accadere in tutte le sue cromature e con tutti i suoi avvenimenti. Quello che serve invece ai nostri figli è renderli capaci e attrezzati per gestire, maneggiare e affrontare tutte le emozioni, quelle belle e quelle brutte. Credo che oggi un limite molto grande dei ragazzi sia che abbiano maneggiato pochissimo le sensazioni e le emozioni che generano fatica, disagio, frustrazione e sono invece molto allenati alla gratificazione istantanea. Questo comporta che una sensazione perturbante, negativa ma di debole entità, possa essere percepita come una cosa enorme, perché va ad inserirsi in un sistema che non ha alcuna abitudine a stare dentro a quel genere di territorio e di questo dobbiamo in qualche modo diventare consapevoli. Credo che la sfida più importante sia quella di rieducare lentamente i ragazzi a rinunciare a quella enorme quantità di stimoli che li portano nel territorio della gratificazione istantanea e permettere a loro di avere esperienze che sono magari più lente, meno eccitanti, meno luccicanti, ma poi molto più capaci di ancorarli al principio di realtà.
Un’ultima domanda. Spesso i genitori sono troppo protettivi nei confronti dei loro figli, questo porta anche ad episodi sgradevoli nei confronti degli insegnanti visti più come dei disturbatori della quiete dei ragazzi. Quanto è importante, invece, il diritto all’errore e l’assunzione delle proprie responsabilità per i più giovani?
È importantissimo e soprattutto diventa sempre più importante quanto più i figli si addentrano nel territorio dell’adolescenza. Un figlio adolescente non dovrebbe mai trovarsi a contatto con un genitore che va a combattere le battaglie e le guerre del figlio. Quello che dovremmo aspettarci è che l’adolescenza è quel tempo in cui un figlio smette di essere dipendente, anche da tutta quella protezione, da quella comfort zone che l’adulto gli mette a disposizione, perché sente che è arrivato il momento della propria vita in cui si attiva lui, combatte lui le proprie battaglie. Questo, tra l’altro, permetterebbe al mondo adulto di generare una mente adulta comune con cui interfacciarsi con chi sta crescendo, perché se sei adolescente e devi combattere le tue battaglie nei confronti del mondo adulto e scopri che in realtà il mondo adulto è in battaglia al proprio interno nella logica di tutelare i tuoi bisogni come se tu fossi un bambino piccolo, ecco che questa roba qua diventa caotica e non è di nessun aiuto a nessuno, né a chi cresce, né a chi deve far crescere. Dentro a questo modello la fragilità dei genitori del terzo millennio è che spesso deve tutelare e difendere il proprio figlio nell’esperienza della sconfitta e dell’errore, quando invece quelle esperienze sono assolutamente necessarie nel percorso di crescita. L’età evolutiva si chiama così perché deve evolvere e per evolvere ha bisogno di fare errori e di apprendere da essi, altrimenti sarebbe un’età già evoluta. Però è anche vero che gli adulti di oggi tollerano pochissimo l’esperienza della caduta, della sconfitta o dell’errore del proprio figlio e questo genera degli enormi corti circuiti in cui poi l’ansia diventa l’emozione dominante, perché è l’ansia dell’adulto che non vuole mai vedere il proprio figlio cadere, fallire o non salire sul podio e chiaramente l’ansia di quel figlio che di fronte a nuove sfide si domanda se sarà all’altezza del compito, ma non se lo domanda in termini di competenze per affrontarlo, se lo domanda già da subito in termini di risultato performance, cioè come dev’essere il mio risultato finale, come dev’essere la mia performance, spostando perciò il focus dei propri sforzi e della propria attenzione sul risultato e non sul percorso, che è il peggiore degli autogol che può avvenire nel contesto di crescita.