Tra guerre e maternità negata. Qual è la nostra attesa, se non la vita?
di Giuseppe Anzani
da www.avvenire.it
@Riproduzione Riservata del 05 dicembre 2024
E adesso, qual è la nostra attesa?
La stagione natalizia propone i suoi rituali di luminarie e mercatini. Ai più pensosi il canto degli angeli sopra il presepe intreccia alla vita che nasce un annuncio di pace. Ma quale pace può piovere ora su noi, terra affannata a far grama la vita gli uni degli altri, a umiliarla, a ucciderla? Se proprio volete trovare un luogo dove la parola “pace” è scritta dappertutto, visitate un cimitero. Oppure no, non si tratta neppure di cercare marmi e cipressi: i cimiteri a cielo aperto stanno ancora nella storia del mondo come le pietre miliari di una insensata follia. A far destino di vita sconfitta, l’inciviltà delle guerre accelera i trionfi della morte.
C’è nelle armi moderne una genialità perversa; al punto da farle mettere al bando da leggi e trattati e protocolli come “disumane”. Ginevra elenca i crimini di guerra; ma chi frena i criminali? Le cronache sull’uso reale delle armi proibite (gas, mine, bombe a grappolo e altro), e sulle devastazioni e i tormenti inflitti alle popolazioni civili, dicono che la disumanità è il veleno annidato nel cuore dell’uomo. Lì è sconfitta la vita.
Proprio in questi giorni è stato pubblicato il Messaggio dei vescovi italiani per la 47esima Giornata Nazionale per la Vita, che avverrà il 2 febbraio prossimo, nel contesto del Giubileo. Il titolo “Trasmettere la vita, speranza del mondo” associa le due grandi parole, vita e speranza, in una sorta di reciproco sostegno, di fusione, di abbraccio. Quale azzardo parlare di speranza in un panorama cupo di vita uccisa che genera domande a tormento, se è l’innocenza stessa dei bimbi, cioè della vita nella quale si rigenera il mondo, a essere straziata. Dalle guerre, sì; ma anche dalla fame, dallo stento, dalle malattie, dai tragitti insidiosi delle migrazioni. E dall’aborto, a milioni.
I temi analizzati nel Messaggio sono molti, e si confrontano tutti con lo sfondo della speranza. Si parla del crollo della natalità, l’inverno demografico, le culle vuote, segno di una speranza appassita, o forse di una fiducia già spenta, dimissionaria, ripiegata sulla propria storia per finirvi, senza spiraglio di novità, senza dono di vita. Il tema dell’aborto vi si allinea, se l’opinione lo raffigura come diritto, come libertà, come fosse indifferente o equivalente la vita o la morte del figlio nel grembo. La maternità difficile è problema che chiede soccorso, solidarietà, aiuto alla vita, risorse meglio investite al soccorso che a riempire di bombe gli arsenali della morte.
Ma la speranza dov’è, allora? La vita, la vita stessa, la vita trasmessa è il segno della speranza. Essa dice la relazione di ogni comunità umana con il proprio futuro. E teologicamente si iscrive in un disegno creativo e in una missione d’amore. Se il costume di vita segnala una perdita del desiderio di trasmettere la vita, è un campanello d’allarme sulla segreta angoscia esistenziale che spegne la fiducia verso le persone e la comunità. Riprende allora la riflessione sull’aborto per riflettere sulla pratica diserzione dell’aiuto alla maternità che la stessa legge 194 promette ed esige. Il messaggio menziona qui espressamente l’opera preziosa dei Centri di Aiuto alla Vita che in 50 anni di attività in Italia hanno aiutato a far nascere 280mila bambini. Altri temi sviluppati richiedono naturalmente integrale lettura. Ma nella riflessione finale che richiama l’impegno di tutti nel promuovere la cultura della vita, fino alla chiusa che si fa preghiera al Dio della Vita e della Speranza, si rivela l’incrocio fra la dimensione teologale della speranza e il suo profilo umano ed esperienziale.
La speranza non è una lotteria, un tentare la sorte. Sul piano umano, la visione del tragico ripetersi delle passate crudeltà e delle stragi di vita indurrebbe piuttosto a disperazione, cioè proprio a quella che Kierkegard chiamò «la malattia mortale ». Servisse a qualcosa, la disperazione, germoglio guasto di un passato guasto, dove l’anima malata non crede ad altro futuro se non al ciclico gorgo. La speranza, sul piano umano, è in realtà una promessa di coerente passione, di impegno di vita: da noi, non possiamo sperare se non ciò che riusciamo a promettere. Per questo, infine, la stessa parola grande e tremenda che suona come virtù, al pari della fede e dell’amore, e dunque è dono di grazia da invocare, non è un possesso ma un cammino. Si inerpica tra mille difficoltà, fra incomprensioni, gesti ostili e persino derisioni, ma non smarrisce la meta, non perde la stella.
Sperare è pur sempre un attendere: ma è un attendere attivo, sulla strada, è farsi prossimo della vita di ogni mezzomorto lasciato lì dal banditismo dell’indifferenza. L’aiuto è la sigla della speranza. Sotto questo aspetto appare esemplare lo stile dei Centri di Aiuto alla Vita, fatto di accoglienza, sollecitudine, soccorso, prossimità; sicché gli ostacoli frapposti all’aiuto dagli intolleranti sono privi di senso e di senno. Sperare è attendere, sì; ma è «un attender certo», come dice il poeta. E come assicura la fede, che è essa stessa «sostanza delle cose sperate». E adesso qual è la nostra attesa, se non la Vita?