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Myanmar, Suu Kyi al Papa in italiano:«Grazie per essere venuto da noi»

di Gian Guido Vecchi

Il colloquio, di 23 minuti, nel palazzo presidenziale. La leader birmana chiede comprensione: i conflitti etnici nel Paese sono una faccenda complessa. Il pontefice non cita la parola Royinga ma invoca « pace nel rispetto di ogni gruppo etnico».-

«Grazie per essere arrivato qui da noi». Aung San Suu Kyi, Consigliere di Stato, si rivolge a Francesco ed esordisce in italiano, in omaggio al vescovo di Roma. E attraverso il Papa è come si rivolgesse al mondo intero dopo le polemiche sulla tragedia dei Rohingya, la minoranza musulmana che negli ultimi mesi ha subito una durissima repressione, con oltre mezzo milione di profughi cacciati dall’esercito oltre il confine col Bangadesh.
La Nobel per la pace non pronuncia quella parola innominabile nel Myanmar, né la dirà il Papa nell’incontro con le autorità e la società civile al centro congressi della capitale. Però Aung San Suu Kyi parla della questione in modo esplicito citando lo Stato di Rakhine, la terra birmana dalla quale la popolazione islamica è stata espulsa, e che un recente accordo tra i governi del Myanmar e del Bangladesh promette di far rientrare: «Tra le tante sfide che il nostro governo ha dovuto affrontare, la situazione nel Rakhine ha catturato più fortemente l’attenzione del mondo», dice. «Mentre affrontiamo questioni di lunga data, sociali, economiche e politiche, che hanno eroso la fiducia e la comprensione, l’armonia e la cooperazione tra le diverse comunità di Rakhine, il sostegno della nostra gente e dei buoni amici che desiderano solo vederci avere successo nei nostri sforzi, è stato inestimabile»
La situazione è complessa e Aung San Suu Kyi, criticata in Occidente per i suoi silenzi, promette tolleranza per tutti e chiede comprensione: «Santità, le sfide che affronta Myanmar sono molte e ogni sfida richiede forza, pazienza e coraggio. La nostra nazione è un ricco arazzo di diversi popoli, lingue e religioni, tessuto su uno sfondo di un vasto potenziale naturale. Lo scopo del nostro governo è di far emergere la bellezza della nostra diversità e di renderla la nostra forza, proteggendo i diritti, promuovendo la tolleranza, garantendo la sicurezza per tutti. Il nostro obiettivo più importante è portare avanti il processo di pace basato sull’Accordo di cessate il fuoco a livello nazionale». La Nobel ringrazia il Papa, cita le Beatitudini, ricorda «la mia educazione al convento di San Francesco a Rangoon, il che mi fa pensare che io abbia diritto a benedizioni speciali da parte Sua Santità», e alla fine ripete in italiano: «Continuiamo a camminare insieme con fiducia».
Come gli aveva chiesto la piccola Chiesa birmana, che teme per se stessa, Francesco non usa la parola «Rohingya». Però il suo discorso è trasparente, quando dice che la pace in Mynmar dovrà essere fondata «sul rispetto della dignità e dei diritti di ogni membro della società, sul rispetto di ogni gruppo etnico e della sua identità, sul rispetto dello stato di diritto e di un ordine democratico che consenta a ciascun individuo e ad ogni gruppo – nessuno escluso – di offrire il suo legittimo contributo al bene comune». Il riferimento all’identità è importante.
Rohingya qui sono innominabili proprio perché non riconosciuti, trattati come apolidi e considerati «bengalesi» irregolari. Il Papa sostiene ogni sforzo per creare «un ordine sociale giusto, riconciliato e inclusivo» e «porre fine alla violenza». Il popolo del Myanmar «ha molto sofferto e tuttora soffre, a causa di conflitti interni e di ostilità che sono durate troppo a lungo e hanno creato profonde divisioni». E «poiché la nazione è ora impegnata per ripristinare la pace, la guarigione di queste ferite si impone come una priorità politica e spirituale fondamentale», aggiunge Francesco. Il processo «arduo» verso la riconciliazione e la pace «può avanzare solo attraverso l’impegno per la giustizia e il rispetto dei diritti umani», insiste il pontefice: «La sapienza dei saggi ha definito la giustizia come la volontà di riconoscere a ciascuno ciò che gli è dovuto, mentre gli antichi profeti l’hanno considerata come il fondamento della pace vera e duratura». In tutto questo, le fedi hanno un compito fondamentale: «Le comunità religiose del Myanmar hanno un ruolo privilegiato da svolgere. Le differenze religiose non devono essere fonte di divisione e di diffidenza, ma piuttosto una forza per l’unità, per il perdono, per la tolleranza e la saggia costruzione del Paese. Le religioni possono svolgere un ruolo significativo nella guarigione delle ferite emotive, spirituali e psicologiche di quanti hanno sofferto negli anni di conflitto». E così, «attingendo ai valori profondamente radicati, esse possono aiutare ad estirpare le cause del conflitto, costruire ponti di dialogo, ricercare la giustizia ed essere voce profetica per quanti soffrono».
Francesco e Aung San Suu Kyi, prima di parlare in pubblico, si erano incontrati in privato, per ventitré minuti, nel palazzo presidenziale. Lei, vestita in azzurro, ha stretto la mano e salutato il Papa con un leggero inchino. Il Papa aveva già ricevuto Aung San Suu Kyi in Vaticano il 4 maggio, nel giorno in cui la Santa Sede e il Myanmar annunciarono di avere finalmente stabilito relazioni diplomatiche. In arrivo da Yangon, Bergoglio è atterrato in un aeroporto vuoto, Nay Pyi Taw è stata costruita dai militari in una pianura di canne da zucchero e risaie come un monumento alla paranoia della sicurezza: viali semideserti fino a venti corsie che in caso d’emergenza possono servire come piste di decollo, palazzi ministeriali, caserme e il palazzo del presidente in stile neoclassico circondati da un ampio fossato con ponti chiusi al pubblico e (finora) ai giornalisti. Francesco è stato accolto nel piazzale d’ingresso dal presidente Htin Kyav ed ha parlato con lui per quindici minuti in privato, prima di essere accompagnato dalla Nobel.
da www.corriere.it
@Riproduzione Riservata del 28 novembre 2017

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