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SUOR MARISA PITRELLA: «QUI L’AMORE GRATUITO SALVA LE FERITE»

di Vittoria Prisciandaro

GIORNATA CONTRO L’AIDS

Il 1° dicembre ricorre la Giornata mondiale di lotta contro l’Aids, istituita nel 1988 dall’Organizzazione mondiale della sanità. Dal 1981 l’Aids ha ucciso oltre 25 milioni di persone; oggi l’accesso alle terapie e ai farmaci antiretrovirali ha migliorato le cure, ma l’Aids è ancora molto pericoloso. «Invito a pregare per i malati e a promuovere la solidarietà perché anche i più poveri possano beneficiare di diagnosi e cure», ha detto Francesco il 1° dicembre dello scorso anno, lanciando poi anche un appello «affinché tutti adottino comportamenti responsabili per prevenire un’ulteriore diffusione della malattia».
Suor Marisa Pitrella, con due consorelle vincenziane gestisce una Casa per malati di Aids: «La gioia più grande», dice, «è aver avuto ragazzi che hanno ripreso la loro vita in mano».-
La Bibbia e il telefonino sono gli amici fedeli di Blessing. Versetti evidenziati con gialli e fucsia sulle pagine del testo sacro; grigio seppia, arcobaleni, bianco e nero per i filtri della telecamera che maneggia con grande maestria, per i selfie e le foto con Ese, l’amica che condivide il suo stesso cammino. Alla Casa famiglia Riario Sforza Blessing vive da sei anni: «È la nostra principessa», scherza uno degli operatori. Da un po’ si muove grazie a una sedia a rotelle. È passata dalla Nigeria al quartiere Camaldoli di Napoli, in questa villetta di tre piani dove, dal 2003, chi cerca una casa dove ripartire ha trovato accoglienza e una proposta di vita.
La Casa nasce come opera della Caritas diocesana per malati terminali di Aids, affidata sin dall’inizio alle Figlie della Carità di san Vincenzo de’ Paoli e ai Guanelliani, andati via nel 2011. Immersa nel verde, in una zona periferica della città, non è lontana dal Cotugno, l’ospedale specializzato in malattia infettive. Una volta a settimana un’équipe di specialisti del Sod, Servizio ospedaliero domiciliare, del nosocomio segue gli ospiti della struttura. Quando la Casa famiglia è stata aperta, era “candidato” a essere ospitato chi aveva come unica possibilità la strada, che vent’anni fa voleva dire morire abbandonati in qualche angolo buio. «Da sempre privilegiamo gli ultimi degli ultimi», dice suor Marisa Pitrella, che dal 2016 coordina la casa.

RICOMINCIARE A VIVERE

Oggi, grazie ai progressi nelle cure, il centro per lo più offre agli ospiti un cammino di recupero, per un’autonomia totale o parziale. «La gioia più grande è aver avuto ragazze che hanno ripreso la loro vita in mano, grazie a relazioni stabili sono riuscite a metter su famiglia e oggi hanno anche dei bambini e una vita serena davanti». Quattro ragazze hanno avuto figli, una coppia si è formata proprio nella Casa famiglia. «Vent’anni fa pensare di poter avere una vita “normale” dopo l’infezione da Hiv era impossibile, oggi seguendo la terapia e restando sotto controllo si possono avere figli senza rischi».
Marisa è un’infermiera specializzata e con Alessandra e Cecilia, le consorelle che hanno la stessa qualifica, manda avanti la struttura. Anche se la Casa ha negli anni modificato la sue finalità − non solo per malati terminali − il criterio di accoglienza rimane invariato: «La domanda supera di gran lungo l’offerta. Abbiamo dovuto dire tanti no, sapendo che qualcuno può ancora morire in strada. In Campania ci sono solo due case, la nostra e un’altra nella zona della stazione a Napoli. In tutto sono una ventina di posti».
I dieci ospiti attuali, uomini e donne, vanno dai 28 ai 64 anni ma in passato, dice Marisa, «abbiamo avuto anche persone di 73 anni e ragazzi di 18, diventati sieropositivi per dei rapporti sessuali occasionali non protetti».
La malattia, spiega la religiosa, «non contagia solo persone che utilizzano droghe, ma si trasmette anche a chi ha rapporti non controllati. Molti non si rendono conto che bisogna essere attenti, bisogna proteggersi dai rischi quando si hanno rapporti». La durezza dell’esperienza, il fatto di aver comunque accompagnato diverse persone fino alla morte, informa un linguaggio poco diplomatico e molto concreto. Sia da parte della religiosa che degli ospiti della casa, che non hanno problemi a farsi fotografare e a raccontarsi, perché «quello che è successo a noi può aiutare altri a non cadere negli stessi errori», dice Ciro, che ogni tanto ha bisogno di attaccarsi al respiratore.
C’È ANCHE CHI NON CE L’HA FATTA
Sfogliando i calendari dei vari anni, che raccontano la vita della piccola comunità, Ciro mostra gli amici presenti, quelli che hanno lasciato la casa per metter su famiglia, altri che non ce l’hanno fatta. Momenti di festa e gite al mare o in montagna, al momento rimandati a data da destinarsi, per la presenza di quattro ospiti allettati. «Quando possiamo qui facciamo sempre festa, ogni occasione è buona», racconta Marisa.
Accolta inizialmente con grande sospetto e qualche protesta, la Casa e la sua piccola comunità − gli ospiti, le tre vincenziane, più sette operatori e alcuni volontari − negli anni è diventata una presenza alla quale anche il quartiere si è abituato. Gli ospiti frequentano i locali della parrocchia Santa Maria del Paradiso ai Guantai, e i contadini della zona, oltre a dare qualche suggerimento per la cura dell’orto, hanno donato un piccolo appezzamento di terreno per la coltivazione di cavoli, broccoli, pomodori…
«Il servizio con le persone affette da Hiv richiede solo un’attenzione in più, ma la domanda di tenerezza è la stessa di chi vive nella sofferenza: hanno bisogno di un amore gratuito che curi le ferite», dice suor Marisa. 44 anni, vincenziana da quasi 23, quinta di cinque figli di una famiglia contadina di Grammichele, in provincia di Catania, Marisa ha imparato a conoscere l’apertura al povero proprio in famiglia: «In un paesino ci si conosce tutti e i miei erano sempre attenti a chi era più solo o nel bisogno». Catechista e animatrice dell’Azione cattolica a 12 anni, a 16 decide di fare un corso da infermiera dopo l’incidente di un’amica: «Chi aiuta i malati, chi sta con loro?», si era chiesta durante le numerose visite in ospedale.
In chiesa diventa ministro straordinario dell’Eucaristia, accompagna la presidente dell’associazione in giro a portare la comunione ai malati, mentre dentro di sé decide che si sarebbe in qualche modo consacrata al Signore. Gli studi da infermiera la portano a incontrare le vincenziane nei vari ospedali dove va a fare tirocinio, mentre il Natale del ’92, trascorso in corsia di malavoglia («volevo andare in parrocchia a Messa, a cantare con il mio coro»), le permette di individuare meglio la sua vocazione.
Quando nel ’94 annuncia in famiglia la sua decisione − «entro in convento, dalle Vincenziane» − per la famiglia è uno shock. Anche perché, vista la dedizione agli altri della più piccola di casa, i genitori speravano potesse restare in famiglia per prendersi cura del quartultimo figlio, affetto dalla sindrome di down. «Mi sono posta il problema di non andare via, ma ho sentito dentro di me quella frase che avevo letto da qualche parte: “Non voglio qualcosa da te, ma voglio te”».
Fa comunque il concorso da infermiera e lo vince, senza prepararsi né chiedere raccomandazioni, perché la traccia che esce è sull’assistenza ai malati di Hiv. Quando la notizia del superamento della prova arriva, la madre neanche lo comunica a Marisa: la figlia è ormai avviata su un’altra strada, che comunque le farà incontrare quei malati di cui aveva scritto con tanta competenza da impressionare la commissione del concorso. Un segno della Provvidenza, visto che proprio con i malati − dopo esperienze diverse in varie parti d’Italia, tra ospedali e scuole − oggi suor Marisa si ritrova a lavorare. «Al centro del nostro carisma, come Figlie della carità, c’è servire Cristo nei poveri, con umiltà, carità e semplicità», dice ricordando che quest’anno si festeggia il Giubileo dei Vincenziani, cresciuti sotto il motto del fondatore: «I poveri sono il vostri maestri, signori e padroni».
Un carisma che le tre consorelle vivono concretamente alla Casa dei Camaldoli, dove i loro ospiti seguono un programma ben preciso, con percorsi su misura. «La prima proposta, uguale per tutti, punta a recuperare la salute: se sono tossicodipendenti si scala il metadone fino a quando non ci si libera dalla dipendenza. Si punta poi, se ci sono, al recupero degli affetti, a ricucire un legame con le famiglie. La permanenza alla Casa è temporanea fino a quando non riescono a camminare da soli, non hanno acquisito autonomia». In 14 anni sono passati circa 60 persone.
Le giornate alla casa prevedono programmi personalizzati e dei laboratori comuni dal découpage, alla cucina, al cucito, all’orto. Un’occupazione su cui le suore investono tanto: «Il senso di quest’ultimo laboratorio è molto importante», dice Marisa. «Se un piccolo seme riesce a sbocciare, anche loro, con molta pazienza e cura verso se stessi, possono farcela».
da www.famigliacristiana.it
@Riproduzione Riservata del 02 dicembre 2017
 

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