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Aborto, il coraggio della verità. Dio non condanna all'ergastolo

Caro Avvenire, dopo aver letto l’articolo di Giovanni Maria Del Re – «L’aborto è omicidio. Docente sospeso a Lovanio» – pubblicato sabato scorso e il commento del professor don Roberto Colombo che l’ha accompagnato, mi sono decisa a scrivere, vincendo la difficoltà e la resistenza che ho nel parlare di un’esperienza tanto dolorosa che ha provocato nel mio cuore e nella mia anima una ferita così profonda e lacerante che ancora oggi, a distanza di molto tempo, sanguina. Scrivo per dire che vorrei ringraziare il professor Stéphane Mercier per aver avuto il coraggio di gridare, forte e chiaro, la verità, senza aver avuto paura delle conseguenze che la sua dichiarazione avrebbe potuto causargli, come, infatti, è successo. «L’aborto è omicidio». È così, infatti. Il peggiore degli omicidi, perché commesso da una madre nei confronti di un figlio, indifeso, da custodire e da proteggere. Quanto di peggio ci possa essere e si possa fare. Concordo con quanto espresso dal portavoce della Conferenza episcopale belga che si debba distinguere tra «persona e atto» e che sia giusto perdonare e comprendere la persona che ha commesso un atto che, invece, è imperdonabile, proprio perché “omicidio”. Il termine è “forte”, certo, ma non “troppo forte” e, soprattutto, è la verità. Una verità che non è «in contraddizione con i valori di apertura agli altri e alla differenza , alla solidarietà, alla libertà e al rispetto». Sacrosanti… Quelli portano a non giudicare la persona, a perdonarla, a cercare di comprenderla e di aiutarla, mai negando, però, l’atto che ha commesso: un omicidio. Già papa Giovanni Paolo II, nella sua enciclica Evangelium Vitae del 1995, quando rivolge il suo «pensiero speciale» alla donne che hanno fatto ricorso all’aborto, pur ammettendo e sottoli- neando la sofferenza per una decisione così drammatica, dice che «quanto è avvenuto è stato e rimane profondamente ingiusto ». E non le dico questo per ergermi a giudice severo e distaccato di chi ha agito in questo modo, l’unico giudizio severo e implacabile è per me che, quasi 28 anni fa, ho commesso questo omicidio e che non mi sono ancora perdonata per ciò che ho fatto. Non cadiamo nel buonismo, anche con il lodevole intento di essere compassionevoli e pietosi nei confronti di chi ha sbagliato, e abbiamo il coraggio di chiamare le cose e le azioni con il loro nome, perché possa essere chiaro, soprattutto a chi è in procinto di farlo ma è ancora in tempo per fermarsi, che se si abortisce si commette un omicidio, sempre e comunque, nonostante tutte le attenuanti, più o meno forti, che in ogni situazione personale si possono trovare. Grazie, dunque, professor Mercier, per avercelo ricordato. Chi ha abortito, comunque, lo sa, di aver commesso un omicidio. Lettera firmata
Gentile signora, la drammaticità di questa lettera scritta a 28 anni da un aborto dice tutto della sua sofferenza, della sua consapevolezza, del rimpianto del figlio che non ha avuto. È, il suo, un 'venire allo scoperto' raro, perché poche donne parlano pubblicamente di un aborto commesso. Accade che se ne parli invece tra amiche, e allora, almeno per mia esperienza, gli accenti sono simili ai suoi. Si dice della giovane età in cui si era spaventate dalla famiglia, o forse non del tutto consapevoli di ciò che si stava per fare; della tristezza, dopo, una segreta tristezza per cui non si era più esattamente come prima; del silenzio, perché di aborto si parla, e si grida, sempre come di un diritto, ma quasi mai si ammette che l’aborto per la donna è un lutto. A volte, quando una donna diventa madre, con il figlio fra le braccia capisce, con un sussulto: mio Dio, cosa ho fatto! Ma tutto questo aspetto della realtà è dentro un cono d’ombra, una faccenda privata tra donne, a bassa voce. Lei, signora, si tiene addosso da tutta la vita il rimpianto di quel bambino non nato, e nessuno glielo può togliere. Però certamente lei si è confessata ed è stata assolta: dunque, Dio la ha perdonata. Non sia lei stessa più severa con sé di quanto lo è Dio, che non condanna mai all’ergastolo chi si pente. In quel perdono Dio ha abbracciato lei e il suo bambino, che non è nel nulla, ma che un giorno ritroverà.
di Marina Corradi
© Riproduzione riservata
Da www.avvenire.it del 7 aprile 2017
 

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