Cei. «Noi, giovani del Mediterraneo, diciamo no alle ingiustizie e sì alla fraternità»
di Giacomo Gambassi, inviato a Firenze
da www.avvenire.it
@Riproduzione Riservata del 14 luglio 2023
Parlano i ragazzi arrivati a Firenze da 18 Paesi per il Consiglio dei giovani del Mediterraneo, progetto promosso dalla Cei insieme con i vescovi di tutto il bacino.-
A Firenze i giovani di 18 Paesi che formano il Consiglio dei giovani del Mediterraneo - Gambassi
Trentasette giovani di diciotto Paesi diversi e tre continenti: Europa, Asia e Africa. Pronti a mettersi in gioco e a impegnarsi per avvicinare le sponde del Mare Nostrum. Sono i protagonisti del Consiglio dei giovani del Mediterraneo promosso dalla Cei come lascito a Firenze dell’Incontro dei vescovi del Mediterraneo che si era tenuto nel febbraio 2022 nel capoluogo toscano e aveva visto in contemporanea il summit dei sindaci dell’area. La consulta si è insediata a Firenze, sede del progetto, dove per una settimana si ritrovano i ragazzi indicati dai vescovi delle nazioni legate al grande mare. Fede, fraternità, giustizia, riconciliazione, attenzione alla politica, dialogo, accoglienza, gemellaggi ecclesiali e culturali sono le sfide che i ragazzi sono pronti ad accettare, con i bagagli culturali che si portano con sé e con le sensibilità, le contraddizioni, le speranze che ciascun Paese vive. Unire i giovani per unire le nazioni è la scommessa che lanciano le Chiese del bacino. Ecco le storie e le voci di alcuni dei ragazzi che fanno parte del nuovo Consiglio.
Emile: «Io, la Chiesa e la politica. Il Libano, faro di dialogo»
A Giorgio La Pira sarebbe piaciuto Emile Fakhoury. Perché a 24 anni crede nella politica e ne parla con passione. Nonostante nel suo Paese, il Libano, l’immobilismo politico e i partiti autoreferenziali abbiano scatenato proteste di piazza a più riprese e siano finiti sul banco degli imputati per il tracollo economico che sta mettendo in ginocchio l’ex “Svizzera del Medio Oriente”. «Il Mediterraneo, compreso il Libano, è stato ed è testimone di molte sofferenze e divisioni - racconta -. Noi giovani siamo chiamati a impegnarsi sul fronte politico e così agire sui processi decisionali. Ad esempio, possiamo svolgere un ruolo importante nella progettazione di nuove politiche che rilancino le economie dei Paesi del sud della regione, che abbiano al centro l’uguaglianza sociale, che aiutino la gente a restare nelle proprie terre e non a fuggire per lasciarsi alle spalle guerre e povertà».
Emile Fakhoury, 24 anni, esperto di media e originario del Libano - Gambassi
È cattolico maronita, Emile. Come dice il suo percorso di studi all’Università dello Spirito Santo di Kaslik, vicino a Beirut, dove si è laureato in cinematografia. Esperto di media, ha lavorato per una serie di organismi ecclesiali come Missio Svizzera e YouCat Germania, il catechismo “giovane” della Chiesa cattolica. Ma ha anche curato alcune campagne per la municipalità di Bsharre, cittadina nel nord del Paese che lega il suo nome alla millenaria foresta dei cedri del Libano celebrati nella Bibbia. Fede, comunicazione e vocazione politica fanno parte del bagaglio con cui Emile è arrivato a Firenze per l’esordio del Consiglio dei giovani del Mediterraneo. «Ciò che sta accadendo nel bacino non è una guerra di matrice religiosa o uno scontro di civiltà. Ma è un conflitto economico e geopolitico crudele e senza cuore che cavalca le paure e le insicurezze delle persone. Perciò sostengo che la pace non va ritenuta un’utopia e può essere costruita tenendo conto della geografia e della storia che condividiamo». Come direbbe il sindaco “santo” che ha ispirato l’organismo voluto dai vescovi. Unire le sponde partendo dai popoli. «I miei coetanei che abitano la riva nord - afferma Emile - hanno un compito cruciale verso chi vive nei Paesi del versante orientale o meridionale: aiutare a cambiare certe dinamiche politiche nei confronti delle altre nazioni, incoraggiare l’integrazione dei rifugiati, incentivare colloqui di pace. Tutte azioni che possono fare molto per instaurare la giustizia e alimentare l’armonia».
Una sinergia di prossimità che la comune appartenenza alla Chiesa cattolica può incentivare. «È la nostra unione che ci rende più forti di fronte alle tante sfide del Mediterraneo, mentre le tensioni e le divisioni storiche minano la credibilità dei cristiani. Questo ci fa chiedere ulteriori sforzi». Una pausa. «L’idea di partire dai giovani per avvicinare le Chiese è interessante. Cominciamo dalle nuove generazioni per tessere relazioni che avranno un riflesso sia ecclesiale, sia civile». Poi Emile torna con la mente al suo Paese. «Il Libano è una nazione con una resilienza vigorosa. Come sosteneva Giovanni Paolo II, è un “Paese messaggio”, ossia mostra che la fraternità e la convivenza fra cristiani e musulmani sono possibili. Abbiamo alle spalle una storia di continue persecuzioni e oppressioni. E l’eredità dei martiri ha consolidato la nostra fede».
Sophia: «Il grido della mia Cipro per superare le divisioni»
È il simbolo delle divisioni che si toccano con mano lungo le sponde del Mediterraneo. Cipro, ovvero l’isola del muro. Separata in due dalla linea verde: da una parte, la Repubblica di matrice greca; dall’altra, il segmento occupato dalla Turchia. «C’è bisogno che le persone, le comunità, i popoli si uniscano per combattere le ingiustizie e le divisioni che pervadono il bacino», dice Sophia Kalou. Diciotto anni, il diploma appena ottenuto alla scuola superiore, è nata e cresciuta nel fazzoletto di terra conteso che il mare circonda. «Ma sono metà cipriota e metà scozzese», scherza. A Firenze arriva consapevole che «il cristiano è chiamato a portare ogni giorno la sua croce», osserva mentre si siede per prendere parte alla prima sessione del Consiglio dei giovani del Mediterraneo voluto dalla Cei e ospitato nel capoluogo toscano.
Sophia Kalou, 18 anni, studentessa appena diplomata a Cipro - Gambassi
«Siamo ragazzi di tutte le sponde. Non solo vogliamo testimoniare la ricchezza delle nostre realtà, ma dobbiamo anche iniziare a costruire un’identità mediterranea che abbia al centro l’uguaglianza e la sostenibilità. Ecco perché considero questa iniziativa un’opportunità; anzi, un primo passo per contribuire a cambiare le società in cui viviamo, che fanno i conti con le disuguaglianze di razza e genere, con le discriminazioni, con l’ignorato dramma del cambiamento climatico. Intendo ascoltare come i miei coetanei di altri Paesi vedano il mondo e come si viva il Vangelo in aree vicine o lontane. La conoscenza reciproca è essenziale se si desidera costruire relazioni di vera prossimità».
Per quattro anni Sophia ha guidato il gruppo di San Barnaba, un’esperienza di incontro e dialogo fra i ragazzi cristiani di Cipro «per discutere in maniera libera su temi comuni e per riflettere intorno ad argomenti che rafforzano la nostra fede», racconta. E aggiunge: «Il Signore ci insegna che vanno affrontate le sfide di fronte a cui siamo posti. Anche a costo di sacrifici personali». Lei considera la sua isola un osservatorio privilegiato sulle contraddizioni che si sperimentano nel grande mare. «È fondamentale dare voce all’intero Mediterraneo. Il che significa partire dall’Europa ma soprattutto avere uno sguardo privilegiato sulle ferite dimenticate: penso a quelle delle genti del Medio Oriente e del Nord Africa. Anche loro ritengono il Mediterraneo la propria casa». Una pausa. «Ci sono questioni cruciali che minacciano la sicurezza e la pace: ad esempio la crisi migratoria, il conflitto israelo-palestinese, la crisi libica, l’instabilità politica. Le opinioni pubbliche devono aver ben chiaro qual è la posta in palio».
Ma che cosa fare? «Come giovani possiamo lanciare progetti mirati che provino a indicare soluzioni a problemi condivisi». Iniziative dal basso. Concrete. Com’è nello spirito del Consiglio ai nastri di partenza, su cui scommettono i vescovi. «Alle Chiese del Mediterraneo chiediamo di adottare un atteggiamento più aperto che favorisca l’inclusività. È innegabile che noi ragazzi sogniamo una Chiesa che sappia superare le barriere e abbracci tutte le comunità, ma anche che declini nel concreto la carità». Sorride Sophia. «Il bacino è stato culla di grandi civiltà che hanno collegato le rive. Noi ne siamo eredi. E quindi abbiamo la responsabilità di continuare a solcare il nostro mare, ma stavolta nel segno della solidarietà e della cooperazione».
Barbara: «Così la mia Bosnia testimonia che le differenze sono un tesoro»
«La Bosnia ed Erzegovina è una terra che accoglie popoli, religioni e culture diverse. Sono convinta che le differenze siano una ricchezza anche nel nostro Paese. Ma la storia ci consegna pagine di scontri e guerre su cui occorre riflettere». Barbara Damjanović porta le speranze di una nazione in bilico fra convivenza e discordia al Consiglio dei giovani del Mediterraneo. Ventidue anni che compirà il 10 agosto, è arrivata a Italia da Mostar, la città martire divisa in due e sotto assedio nel conflitto che dal 1992 al 1995 ha insanguinato l’ex Jugoslavia. Il suo ponte, abbattuto dai colpi d’artiglieria e poi ricostruito, è lo specchio di una comunità che si sente di poter unire Occidente e Oriente. «Se il bacino di cui la Bosnia ed Erzegovina fa parte intende essere un “mare di pace”, tocca ai giovani lasciarsi alle spalle un passato segnato dalle divisioni e guardare avanti. Non possiamo continuare a commettere gli errori che finora i popoli hanno collezionato», sostiene Barbara.
Barbara Damjanović, 22 anni, vive Mostar in Bosnia ed Erzegovina - Avvenire
È una social manager, con una laurea in filosofia. «Purtroppo il Mediterraneo ci mette di fronte a contraddizioni che spesso si sono tradotte in periodi bui o eventi tragici. Si tratta di aspetti negativi che non possono essere cancellati. Ma ci dicono anche che soltanto attraverso il dialogo e il confronto possiamo progredire. E siamo proprio noi nuove generazioni a saper andare oltre le barriere mentali e culturali, a essere capaci di individuare i punti di forza dei nostri Paesi per utilizzarli in modo proficuo, ma anche di riconoscere le debolezze delle società che abitiamo per trasformarle in vantaggi».
L’elemento religioso è uno dei pretesti che sono stati usati per alimentare le tensioni. Nella nazione di Barbara essere cattolici significa venire considerati per lo più croati, uno dei “popoli” che compongono la Bosnia ed Erzegovina. Sono poco meno del 15% dei tre milioni e mezzo abitanti: la metà è bosniaca, quindi musulmana, e oltre un terzo serba, cioè ortodossa. L’accordo di Dayton che ha chiuso il conflitto ha congelato gli attriti, senza indicare vie per superarli. «Noi cristiani viviamo la propria fede in maniera attiva. Ma ognuno a modo suo. Si va alla Messa domenicale, si partecipa alle preghiere, si seguono gli incontri di catechesi, si fa volontariato nelle parrocchie ma con uno stile individuale». Allora ecco che il Consiglio voluto dalla Cei può aiutare a fare squadra. «Lo considero un’ottima opportunità per chi lavora con i ragazzi e a favore del bene comune. Come giovani del Mediterraneo ci troviamo di fronte a numerose sfide ma abbiamo il medesimo obiettivo: contribuire a creare una società migliore. Partendo dalle nostre differenze che non vanno cancellate ma armonizzate».