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Come conciliare il lavoro con la paternità?

di Valerio Mammone, Giornalista e direttore di ScuolaZoo
da www.uppa.it
@Riproduzione Riservata del 04 dicembre 2024

In che modo conciliare lavoro e figli è una domanda che a lungo si sono poste quasi solo le madri; adesso cominciano a chiederselo anche i padri. Valerio Mammone, giornalista e papà di due bambini, riflette sui papà di oggi, partendo dal tema del lavoro.-

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«I papà millennial stanno disegnando un nuovo modello di paternità», scriveva pochi mesi fa Il Sole 24 Ore citando i dati dell’utilizzo del congedo di paternità, aumentato quasi del 40% in dieci anni. In media, infatti, trascorriamo più tempo con i nostri figli, partecipiamo di più alla vita familiare e, sebbene la parità di genere sia ancora un obiettivo lontano, è evidente che qualcosa sta cambiando in meglio. 

È davvero arrivato il momento di riunirci, di trovare delle occasioni di condivisione per discutere e ridefinire il nostro ruolo nella famiglia e quindi nella società. Di fare i papà nel senso più ampio del termine.

Vorrei provare anche io a offrire il mio contributo, occupandomi di quei temi rispetto ai quali la paternità mi ha cambiato profondamente. Comincio dal lavoro, pilastro ingombrante e fondamentale delle nostre vite, con cui ho faticato e a volte fatico tuttora a trovare un equilibrio.

Quattro anni e mezzo fa, quando è nato il mio primo figlio, non avrei mai immaginato che il lavoro e la paternità sarebbero entrati così tanto in conflitto. Il lavoro per me era tutto: una passione, una valvola di riscatto e riconoscimento sociale, un dovere nei confronti della mia famiglia.

C’è stata addirittura una fase della mia vita, intorno ai 30 anni, in cui lavorare dodici ore al giorno e non avere tempo per fare nient’altro era diventato quasi un vanto. Non essendo mai stato un carrierista né una persona particolarmente attaccata al denaro mi sono chiesto a lungo, soprattutto negli ultimi anni, in quale momento della mia crescita mi fossi trasformato in un workaholic. Mi sono dato diverse risposte.

Riflettere sulla propria storia

Prima di tutto c’è una componente generazionale: come molti millennial, sono entrato nella vita pre-adulta nel momento esatto in cui l’ottimismo boomer del «Puoi diventare quello che vuoi» si è scontrato con una realtà fatta di disoccupazione, precariato, stage gratuiti, di «Sei fortunato ad avere un lavoro». Da adolescente e giovane adulto ho avuto una paura concreta e costante di non trovare lavoro, e quando il lavoro l’ho trovato ho dato tutto quello che avevo per non perderlo. 

Poi c’è una componente personale: facevo il giornalista e il giornalismo, per me, prima di essere un lavoro era stato un sogno, un’occasione di riscatto sociale. Sono il primo laureato della mia famiglia, e il giornalismo è un mondo chiuso, selettivo, a cui si accede in molti casi per via ereditaria: entrare a far parte di quel mondo, far vedere la mia faccia in TV, essere letto su uno dei siti di notizie più cliccati in Italia, assumere una posizione di rilievo in una redazione era motivo di orgoglio, ma anche un obiettivo che per molto tempo ha oscurato altri orizzonti.

E poi c’è il modello familiare: i ruoli e compiti dei miei genitori erano sempre stati divisi in modo molto netto e non è stato difficile, quindi, identificarmi nella figura di mio padre, unico garante del benessere economico della mia famiglia di origine.

Una nuova prospettiva

Quando sono diventato papà, o meglio, quando ho preso pienamente consapevolezza della maniera in cui avrei voluto interpretare quel ruolo, il mio approccio al lavoro è cambiato radicalmente. Con il passare dei mesi e degli anni – e in particolare durante la pandemia – ho avuto una serie di epifanie (anche piuttosto scontate, da un certo punto di vista) che hanno reso il cambiamento un processo naturale, ma non per questo facile.

Mi sono accorto, per esempio, che mio figlio stava davvero crescendo alla velocità della luce e che certi momenti non sarebbero più tornati. Ognuno di noi, nella propria vita, si è sentito dire spessissimo che «il tempo vola» o che «ogni lasciata è persa», ma forse è stata proprio la paternità a farmi avvertire per la prima volta, con forza, l’urgenza di usare bene e consapevolmente il tempo a mia disposizione. Ho capito che per incidere davvero sull’educazione e sulla crescita dei miei figli avrei dovuto (e voluto) dedicare loro tempo ed energie che fino a quel momento avevo messo soltanto nel lavoro.

Anche la vanità che aveva guidato e accompagnato parte delle mie scelte è gradualmente venuta meno, ed è diventato evidente quando di fronte alla possibilità di lasciare il giornalismo, con i suoi ritmi a volte malsani, per andare a lavorare in un’azienda come ScuolaZoo, attenta al benessere delle persone e all’equilibrio tra lavoro e vita privata, non ho avuto dubbi, malgrado tanti colleghi abbiano provato a farmi cambiare idea temendo che stessi rivedendo al ribasso le mie ambizioni.

Fare i conti col senso di colpa

Riassunto in poche righe, questo cambiamento di prospettiva può sembrare quasi banale, ma per me non lo è stato affatto. A lungo il solo pensiero di non dedicare tutto me stesso al lavoro, di non passare buona parte del mio tempo a cercare nuove opportunità e stipendi più alti mi ha fatto sentire in colpa.

Vivere a Milano non mi ha aiutato: nel mondo della comunicazione, e non solo, le persone cambiano lavoro con una rapidità impressionante. Il fenomeno del job hopping, come viene definito in inglese, è così diffuso che a volte basta scrivere a una persona «Ciao, quando posso chiamarti?» per sentirsi rispondere «Non dirmi che cambi lavoro anche tu!» (fatto realmente accaduto).

Vedere tutti muoversi alla velocità della luce per guadagnare di più mentre tu vorresti soprattutto prenderti del tempo per stare con i tuoi figli può essere un’esperienza spiazzante e difficile da gestire. Nel mio caso lo è stata fino a quando ho capito che si può essere un buon papà anche senza portare a casa stipendi sempre più alti, rispondendo a esigenze non solo materiali, ma anche relazionali ed emotive.

Un invito a tutti i papà

Mi rendo conto che quello che ho raccontato può essere percepito, tanto dai lettori quanto dalle lettrici, come la storia di una persona privilegiata. Essere un uomo mi ha permesso di gestire il conflitto tra famiglia e lavoro partendo esclusivamente da me stesso, senza dover fare i conti né con un mondo del lavoro ostile alle donne con figli né con i profondi cambiamenti portati dalla gravidanza, dal parto e dal rapporto unico che nei primi mesi lega madri e figli. Al tempo stesso, non tutti gli uomini hanno la fortuna di poter scegliere dove lavorare, beneficiando di una cultura del lavoro che li consideri persone e non solo lavoratori. 

Vorrei quindi che questo racconto fosse letto e considerato come la storia di un papà fra tanti, né giusta, né sbagliata. Una storia condivisa per invogliare altri papà a fare lo stesso, a prendere parola, ovunque si trovino.

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