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«CON LA PANDEMIA ANCORA MENO CULLE»

 di Roberto Zichittella 

da www.famigliacristiana.it
@Riproduzione Riservata del 31 agosto 2020

«Il prossimo anno scenderemo sotto i 400 mila nati. Servono più sostegni e facilitazioni a vantaggio di genitori e nonni, ma soprattutto va riconosciuto il loro ruolo di motore della società».-

Da marzo gli italiani sono travolti dai numeri. Numeri che fanno paura. Quelli dei contagi, dei ricoverati, dei morti. Poi sono arrivati i numeri della crisi economica provocata dalla pandemia e dalle misure di confinamento per arginarla. Numeri con davanti il segno meno. Meno lavoro, meno ricchezza, meno soldi per le famiglie. Dare i numeri, interpretarli e spiegarli è il compito dell’Istat, l’Istituto nazionale di statistica, di cui Gian Carlo Blangiardo, 71 anni, è presidente dal 4 febbraio 2019, dopo una carriera universitaria che lo ha visto occuparsi di Metodologia statistica, Demografia e Statistiche sociali.
Ospite in questi giorni del Meeting di Rimini, il professor Blangiardo ci aiuta a fotografare l’Italia in questo difficile momento storico.
Presidente Blangiardo, l’Istat aggiorna periodicamente i dati sulla mortalità in Italia. Quanto hanno inciso gli oltre 35 mila morti dovuti al coronavirus?
«Se prendiamo il numero dei decessi del primo semestre 2020 rispetto allo stesso periodo nel quinquennio 2015-2019, contiamo 36.524 morti in più e questo è da ritenersi, al netto di fattori meno rilevanti, l’effetto del Covid-19. La gran parte di quelle morti sono concentrate nei mesi di marzo e aprile, quando si è scatenata una sorta di tempesta che ha colpito soprattutto 37 province nel Nord, più quella di Pesaro-Urbino».
Quali persone sono state travolte maggiormente da questo tsunami?
«Gli anziani, più tra i maschi, e in genere le fasce di età più deboli e fragili, già colpite da malattie croniche. È pur vero che il virus Covid-19 si è rivelato mortale anche in assenza di concause, ma per gran parte degli anziani è valso ad aggravare condizioni di salute già compromesse, a volte accelerando i tempi di un evento inevitabile».
Per un demografo che cosa significano decine di migliaia di morti così concentrati in poco tempo?
«Sono numeri importanti, ma in un Paese dove ogni anno muoiono 650 mila persone, a livello medio non si tratta di numeri catastrofici. Non è stato l’equivalente di una guerra. Tuttavia se ci caliamo in alcune realtà territoriali, soprattutto al Nord, l’aumento dei morti lascia un segno tutt’altro che marginale: determina un significativo regresso rispetto agli standard di sopravvivenza ai quali eravamo abituati. Per esempio, facendo una simulazione sulle province di Bergamo e Cremona abbiamo visto che il dato della speranza di vita per il 2020 ci riporta ai livelli di sopravvivenza di venti anni fa. Inoltre il virus non ha fermato il processo di invecchiamento della popolazione italiana, su base nazionale, ma in certe zone ha dato luogo a una considerevole frenata, che sarà comunque temporanea, ma rappresenta un inaspettato cambio di passo».
Però non sempre vivere più a lungo significa vivere meglio, concorda?
«Certo, conta anche la qualità di questa vita che si allunga. Tutti gli anni guadagnati non sono guadagnati integralmente in buona salute, ci sono disabilità fisiche e mentali, con il peso di malattie croniche. Ma è innegabile un progresso anche nella qualità della vita per i nostri anziani».
La pandemia, l’incertezza per il futuro e la crisi economica daranno un’accelerata al calo demografico dell’Italia?
«La tendenza al calo delle nascite sembra inarrestabile. Nel 2019 abbiamo stabilito, per la settima volta negli ultimi sette anni, un nuovo record negativo di nascite nella storia d’Italia (420 mila) e i primi dati del 2020, disponibili per gennaio, segnano già un calo dell’1,4% rispetto allo stesso mese del 2019. Poi è arrivato il Covid-19. Chi a marzo pensava di fare un figlio forse ci ha ripensato, e mi aspetto che a dicembre, nove mesi dopo, ci sia un basso numero di nascite che verosimilmente si protrarrà anche nei primi mesi del 2021. Per altro questa dinamica, motivata da incertezza e paura, sarà facilmente accentuata dalla crisi economica, soprattutto se verranno a mancare paracadute come è stata finora la cassa integrazione. Se manca il lavoro e i redditi non sono adeguati, l’ultimo pensiero di una giovane coppia sarà quello di fare un figlio. Questo potrebbe provocare una ulteriore caduta della natalità nel 2021. Prevedo che verosimilmente scenderemo sotto i 400 mila nati. Spero di sbagliarmi, ma temo di no».
Lei ha parlato di effetto Chernobyl, ci sono precedenti storici di queste tendenze?
«Mi riferivo all’effetto provocato dalla nube radioattiva di Chernobyl nel 1986, quando in Italia l’incertezza per la salute provocò, nove mesi dopo, un crollo della natalità del 10%. Ma ci sono anche i precedenti della Germania Est e della Grecia. Quando cadde il Muro di Berlino, in Germania Est vennero a mancare molte tutele per i lavoratori e si passò da 200 mila a 90 mila nati. In Grecia, durante la crisi economica e finanziaria a cavallo dello scorso decennio, la natalità scese del 20%, per poi riprendersi alla fine della crisi».
L’immigrazione può dare ossigeno alla natalità in Italia?
«Temo sia una grande illusione. Il problema delle culle vuote non si risolve con l’immigrazione. Intendiamoci, i 62 mila nati stranieri del 2019 danno un contributo importante alla natalità, però ricordo che i nati stranieri nel 2012 erano 80 mila, e nel frattempo la popolazione straniera è anche aumentata».
Questo che cosa significa?
«Significa che le famiglie straniere hanno gli stessi problemi di quelle italiane, anzi, a volte i problemi sono maggiori perché le coppie straniere con figli non hanno qui in Italia neppure il sostegno dei nonni. Quindi anche gli immigrati si stanno avvicinando ai livelli di fecondità della popolazione italiana».
Che Italia ci aspetta con un calo demografico di queste dimensioni e un continuo invecchiamento della popolazione?
«Un’Italia in cui si ferma il motore della società. Il ricambio generazionale crea persone che sono produttori e consumatori, mentre l’invecchiamento comporta una popolazione meno dinamica e innovativa, oltre che meno propensa a consumare. Se a un anziano si rompe una scarpa, cercherà il calzolaio per ripararla invece di comprarne una nuova (ma visto che i calzolai non si trovano, poi la comprerà nuova lo stesso). Viene a mancare un’idea di futuro, quello spirito che animò il dopoguerra italiano, quando c’era un contesto demografico di vitalità che ebbe effetti positivi sull’economia di una nazione che usciva da una guerra persa. Oggi invece la debolezza della famiglia indebolisce anche l’economia».
Quali rimedi servono?
«Va riconosciuto alla famiglia il ruolo di motore della società, bisogna aiutarla a fare questo mestiere sostenendola nelle difficoltà che incontra».
Un bonus economico alle famiglie può aiutare?
«Non basta. Fare un figlio è una scelta che dura tutta la vita e questa scelta così importante non può essere supportata da una iniziativa che magari dura una sola stagione: si danno 500 euro una tantum e poi arrivederci. Serve un cambiamento strutturale e culturale. Le famiglie vanno aiutate a costruire il capitale umano che serve al Paese, per esempio con norme che aiutino a conciliare maternità e lavoro. Questo si può fare coinvolgendo, persino cointeressando, anche gli imprenditori e il Terzo settore, non solo lo Stato. Dal punto di vista culturale bisogna prendere atto che stiamo vivendo un problema grave, parlarne di più e rimboccarci tutti insieme le maniche per provare a risolverlo».
Certi cambiamenti nella nostra vita provocati dal lockdown saranno irreversibili? Sempre più persone lavoreranno da casa?
«Mi lasci dire con orgoglio che all’Istat avevamo già promosso, prima che arrivasse il Covid e in via sperimentale, il telelavoro per conciliare esigenze familiari e lavoro. Lavorare da casa può essere un bene, ma non è possibile in tutti i settori produttivi e per molti lavoratori, penso soprattutto alle donne con figli che, per vari motivi, sono già più spesso fra le quattro mura. Per loro questo significa anche una perdita delle relazioni sociali. Quindi, attenzione ai pro e ai contro».
Pensa che cambierà il modo di vivere le nostre città?
«Alcuni cambiamenti ci saranno senz’altro. Le faccio un esempio. Io vivo a Meina, sul Lago Maggiore, e nella vicina Arona per anni i commercianti e i ristoratori si sono opposti a ogni ipotesi di isola pedonale temendo una perdita di clienti. Ora che è possibile estendere lo spazio per i tavolini di bar e ristoranti di fatto si è quasi creata la tanto aborrita isola pedonale. Il lungolago è più bello e più vivibile, gli affari vanno bene e tutti sono contenti. Sarà difficile un ritorno indietro».

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