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Demografia. Ma le politiche per la natalità funzionano ancora?

di Massimo Calvi
da www.avvenire.it

@Riproduzione Riservata del 11 aprile 2025

In questa epoca segnata dal crollo globale dei tassi di fecondità tanti si chiedono ormai se abbia senso spendere soldi per sostenere le nascite. Le ricerche dicono di sì, ma che dipende dal contesto.-

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Le politiche per sostenere le nascite funzionano? Oppure si tratta di soldi spesi male, perché la decisione di diventare genitori nei paesi avanzati dipende ormai da una serie di fattori così ampia e complessa da rendere gli aiuti inefficaci? Oggi molti se lo chiedono, soprattutto in Italia, dove la natalità è scesa a livelli tragicamente bassi e le risorse disponibili sono limitate.

La letteratura scientifica su questo offre risposte contraddittorie, non perché i sostegni non funzionino, ma perché dipende molto da che tipo di aiuto si parla, quale livello di generosità lo caratterizza, se l’obiettivo è redistributivo e mira a una maggiore giustizia sociale, o è dichiaratamente pronatalista, e soprattutto in quale contesto culturale e sociale viene calato, se cioè si tratta di un Paese a fecondità bassa o alta, se è già dotato o no di politiche familiari importanti, quali sono i valori di riferimento.

Questione complessa, insomma. Ampliare le misure di assistenza all’infanzia, gli assegni monetari o i congedi parentali, può produrre effetti molto diversi in Norvegia, Italia, Corea del Sud o Polonia. Alcune certezze, però, ci sono. Una recente revisione di vari studi precedenti dedicati all’impatto delle politiche familiari sulla fertilità (Gauthier 2024, Family Policies in Low Fertility Countries: Evidence and Reflections) è arrivata alla conclusione che gli interventi politici possono ormai avere effetti contenuti rispetto alle attese, e il loro “successo” dovrebbe essere valutato in termini di capacità di sostenere le famiglie in modo ampio, considerando elementi come l’equilibrio tra lavoro e vita privata o la promozione della parità dei ruoli, e non guardando solo ai tassi di fecondità.

Questo non significa però che sia inutile investire in politiche familiari, se un Paese ha un drammatico bisogno di assecondare il desiderio di diventare genitori. Il generoso sostegno fiscale concesso alle famiglie in Ungheria (o Norvegia), ad esempio, ha avuto un impatto positivo molto forte sulla fecondità. In Polonia il “ricco” assegno universale di 500 zloty a figlio al mese (125 dollari circa) ha aumentato del 6% le nascite nei successivi nove mesi. Le misure che hanno ampliato l’assistenza all’infanzia per i bambini molto piccoli hanno prodotto effetti positivi evidenti in Centro e Nord Europa, meno nell’Europa meridionale. L’estensione dei congedi parentali funziona, ma non per tutti e non dove la prassi è lavorare molte ore, come in Giappone o Corea, e le aziende supportano poco gli orari flessibili. Per valutare l’efficacia delle diverse politiche, spiega lo studio, è dunque «fondamentale considerare l’influenza del contesto nazionale, delle norme culturali e della coerenza con altre politiche sociali».

Da questo punto di vista, un’altra analisi sui risultati della letteratura scientifica prodotta dagli anni Settanta in poi in Europa, Stati Uniti, Canada e Australia riferita alle politiche per la fecondità (Bergsvik 2021, Can Policies Stall the Fertility Fall? A Systematic Review of the (Quasi-) Experimental Literature) offre un ventaglio talmente ricco di esempi da rendere evidente quanto sia importante definire bene le misure in virtù del contesto. In linea di massima, dagli studi emerge che i maggiori trasferimenti di denaro per i figli hanno sì un effetto positivo, ma generalmente temporaneo, invece ampliare l’assistenza all’infanzia incide per un periodo più esteso sui tassi di fecondità, mentre congedi parentali lunghi sono più apprezzati maggiormente dalle coppie con redditi alti. Il quadro, in ogni caso, è molto articolato e ciò che può funzionare in un Paese non è detto vada bene in un altro. Storicamente l’aumento dei posti disponibili nei servizi per l’infanzia e la riduzione del loro costo ha avuto effetti positivi in particolare nell’Europa centrale e settentrionale. Ad esempio, un punto in più di copertura dei posti all’asilo ha aumentato dello 0,7% il numero di figli per donna in Norvegia e dello 0,3% in Germania. In Svezia, una riforma che ha ridotto i costi dell’assistenza all’infanzia ha aumentato le prime nascite tra le coppie con redditi inferiori. Da quanto emerge, gli interventi per bilanciare lavoro e genitorialità hanno effetti positivi sulle nascite soprattutto per le fasce sociali più basse.

L’estensione dei congedi parentali ha invece prodotto maggiori risultati in Centro Europa e nei Paesi di cultura anglosassone, come Usa e Canada. In Austria il raddoppio del congedo materno a 24 mesi ha fatto salite del 5,7% la probabilità di avere un figlio ulteriore. In Quebec permessi più generosi per i padri hanno accresciuto del 23,5% il tasso di fecondità totale. A beneficiare dei congedi tendono però a essere le coppie con reddito e istruzione superiori. Curioso invece che un ritocco dei congedi di paternità negli anni 90 in Norvegia non abbia cambiato molto la situazione, mentre in Spagna una riforma simile nel 2007 ha addirittura avuto un effetto negativo, con un calo del 5% nelle probabilità di nuove nascite, forse in ragione del fatto che dove i ruoli di genere sono più marcati i potenziali padri possono temere di doversi impegnare di più a casa. Il contesto culturale e sociale, insomma, è determinante. Lo si vede in particolare analizzando il contributo delle erogazioni monetarie per i figli. Al bonus bebè introdotto nel 2007 in Spagna è stato collegato un balzo immediato della fecondità del 5%, una misura simile in Canada a fine anni Novanta ha portato a un aumento del 12%. Gli assegni per i figli risultano efficaci quando sono importanti e universali, ma il loro effetto è meno duraturo, e funziona maggiormente per le coppie con redditi più alti, dunque escluderle potrebbe essere un errore.

E l’Italia? Ricerche ce ne sono poche, anche perché non abbiamo una storia di misure significative. Il fatto però che alcuni lavori abbiano collegato l’aumento dell’età pensionabile a un calo della natalità lascia capire quanto ci sia molto da fare in termini di servizi alle famiglie, dal momento che la minore “disponibilità” di nonni in pensione ha indotto le coppie a mettere al mondo meno bambini. Più che le formule, insomma, conta il contesto. L’aumento dei tassi di lavoro femminile, ad esempio, fa aumentare le nascite dove i servizi per l’infanzia ci sono, non se questi sono carenti o troppo cari.

Le nascite dipendono da un mix di fattori: cultura, valori, sicurezza, occupazione, potere d’acquisto. Le politiche pubbliche possono funzionare ancora se segnano un miglioramento netto rispetto al passato, e vengono inserite in un messaggio pubblico di concreto e duraturo sostegno alle famiglie. Ma vanno misurate sul territorio in cui devono calarsi, evitando operazioni di copia-incolla da contesti culturali, economici e di welfare molto diversi. Oggi lo scenario invita a intervenire di più sull’equilibrio tra lavoro e cura, favorendo l’accessibilità ai servizi di assistenza all’infanzia e migliorando l’armonizzazione tra lavoro e vita privata, puntando anche su strumenti come lo smart working.

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