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Figli. Nei Paesi ricchi diventare genitori è sempre di più una cosa da ricchi

di Massimo Calvi
da www.avvenire.it
@Riproduzione Riservata del 03 luglio 2024

Nelle società del benessere il reddito è ormai un elemento decisivo nella scelta di avere figli. Anche per le donne. Billari (Bocconi): «Un problema di disuguaglianza, servono misure per i giovani».-

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Nelle nazioni ricche diventare genitori è sempre di più una questione da ricchi. O, comunque, per coppie con un certo livello di reddito. Non è una forzatura, e nemmeno un’interpretazione, ma un dato di realtà. Da diverso tempo nelle economie avanzate si assiste a un fenomeno che assomiglia molto a un passaggio di testimone tra fasce sociali: come se avere figli fosse ormai un traguardo riservato a chi può permetterselo.

È un cambiamento che unisce aspetti materiali e culturali. Per anni il calo della fecondità nei paesi più sviluppati è stato attribuito, oltre che ai costi legati alla crescita di un figlio, allo stravolgimento dei valori che si verifica quando aumentano il benessere e l’istruzione, come ha ipotizzato ad esempio la teoria della Seconda Transizione Demografica. Tuttavia, all’interno di questa rivoluzione, segnata dall’individualismo, diventare genitori ha continuato a essere una prospettiva non preclusa ai poveri. Oggi nei paesi cosiddetti avanzati non è più così.

La natalità è inferiore nei territori arretrati o dove lo sviluppo è meno marcato, gli uomini con titolo di studio più basso o scarsi mezzi economici hanno meno probabilità di diventare padri, e anche le donne senza figli sono più frequentemente lavoratrici precarie con bassi redditi e istruzione inferiore, non necessariamente manager in carriera. Il caso della Danimarca, dove nel 2023 per le donne di origine straniera si è registrato un tasso di fecondità inferiore a quello delle danesi, rappresenta forse il punto più avanzato, o l’esito finale, di una trasformazione nella quale la dimensione economica sembra imporsi anche sulle tradizioni culturali.

Come mai succede questo? Perché, come ha certificato l’Ocse nel rapporto Society at a glance 2024, nei paesi ricchi l’età media del primo parto in poco più di 20 anni è salita da 28,6 a 31 anni e, anche a causa di questo, la fecondità è scesa dai 3,3 figli per donna degli anni Sessanta agli1,5 di oggi? Un tema emergente chiama in causa i prerequisiti economici che le persone ritengono vadano soddisfatti prima di diventare genitori. Questo aspetto è stato analizzato di recente da Francesco Billari, professore di Demografia e Rettore dell’Università Bocconi, e Daniël van Wijk, ricercatore dell’Istituto demografico Knaw dell’Università di Groninga, in una ricerca pubblicata sulla “Population and Development Review” (Fertility postponement, economic uncertainty, and the increasing income prerequisites of parenthood).

«Esaminando i dati di sette paesi ci siamo chiesti come mai la scelta irreversibile della genitorialità si è spostata così in avanti nell’età e quale variabile si trova come costante in tutti i contesti – spiega Billari ad “Avvenire” –. La maggiore insicurezza percepita dai giovani era una delle spiegazioni possibili, in realtà non è così: il fattore veramente unificante è il reddito. O meglio, il livello di reddito che si considera necessario raggiungere prima di avere figli». La novità è che non è sempre stato così: «Negli ultimi vent’anni c’è stata un’inversione di tendenza, netta, rispetto al secolo scorso, quando avere figli non era solo prerogativa di chi era benestante. Ma la direzione è chiara: avere figli è sempre di più una scelta che discrimina tra chi se lo può permettere e chi no, ponendo una questione di disuguaglianza nell’accesso alla genitorialità».

A emergere è pure un altro aspetto, coerente con le teorie sulla “genitorialità intensiva”: il rinvio di una tappa fondamentale della vita come è l’arrivo di un figlio in attesa di raggiungere un reddito adeguato, dipende anche da quale significato si attribuisce oggi al temine “buon genitore”. Perché la realtà dice che nelle società avanzate padri e madri vogliono garantire un certo livello di istruzione e opportunità ai figli, non sono disposti a lasciare nulla al caso, e pensano sia decisivo investire tempo e risorse economiche per sentirsi genitori perfetti. Tutto questo ha un prezzo, anche contando i figli che si perdono nell’attesa del momento, o del reddito, giusto.

L’aumento del reddito necessario per decidere di diventare genitori è, insomma, il frutto di una trasformazione ampia, come spiega Billari. Da un lato vi sono le aspettative per una scelta di vita definitiva nella quale le persone si aspettano di dover investire molte più risorse di un tempo. Poi c’è il tema dell’aumento oggettivo dei costi legati alla crescita dei figli, dalla casa fino all’istruzione. Infine, una questione che chiama in causa la parità di genere: «In passato più il reddito femminile era alto, meno figli si avevano. Oggi invece le donne diventano madri se hanno un lavoro e se è ben remunerato. Fino a vent’anni fa accadeva che le donne senza lavoro potevano decidere di avere figli, oggi in mancanza di un reddito adeguato si tende a rinunciare alla maternità».

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È come se le donne avessero pareggiato i conti con gli uomini: il lavoro povero è ormai per tutti un ostacolo alla genitorialità, senza differenze di genere. E forse i tassi di occupazione femminile rischiano di non essere così decisivi in relazione alla fecondità, se gli stipendi sono molto bassi, come messo in luce da diverse ricerche che hanno indagato la condizione delle donne che non hanno o non vogliono figli.

In un mondo in cui le persone che guadagnano poco hanno passato il testimone della natalità a chi sta meglio, il dibattito pubblico dovrebbe trovare il modo di parlare anche di questo tipo di disuguaglianza. Diventare genitore molto più tardi può essere persino una strategia per raggiungere una posizione elevata nel mondo del lavoro, e avere così molte più risorse da investire nell’educazione dei figli, allargando ulteriormente il divario con chi può non avere le stesse opportunità, o si convince di non disporre dei mezzi sufficienti per assicurare il “meglio” alla prole.

La ricerca di Billari e Van Wijk, in un certo senso, muove una critica all’idea formatasi negli ultimi anni che sia l’insicurezza percepita il motore principale del rinvio della genitorialità e, di conseguenza, delle minori nascite. «Si pensa a volte che per l’insicurezza che porta a rinunciare o rinviare la genitorialità basti cambiare la narrazione – spiega il rettore della Bocconi – mentre in realtà le politiche dei governi sono ancora decisive».

Cosa fare, dunque? «Se il reddito è diventato così importante, servono politiche pubbliche e private per permettere a due genitori che lavorano di conciliare gli impegni lavorativi e quelli per la famiglia. Sono utili anche tutte le misure che diminuiscono la pressione sui costi per i figli, in modo da accompagnarne la crescita: dall’Assegno unico agli orari scolastici più ampi, dalle mense gratuite alla possibilità di far svolgere a scuola attività come lo sport o le lezioni di musica e di lingua. Decisiva è poi la questione del reddito disponibile per i giovani, soprattutto in un paese come l’Italia caratterizzato da stipendi particolarmente bassi. Così come è giusto stanziare risorse per le persone che perdono l’impiego dopo i 50 anni, dovremmo pensare di farlo per una diversa tassazione del lavoro giovanile. Anche questa può essere una politica a favore delle nascite e della genitorialità».

Se lo scenario che caratterizza le società del benessere, o quelle dove il consumismo ha espresso tutto il suo potenziale, dice che diventare genitori si è trasformato in un privilegio, potrebbe essere importante fare in modo che la questione diventi un tema forte e ampio di confronto, prima che un’agenda politica. Quanto al livello personale, resta sempre la possibilità di spaccare lo schema e provare a pensare che il migliore investimento, o dono, che si può fare per i figli, è quello di una coppia di genitori che si vuole bene. Ma questo è proprio un altro discorso.

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