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«I nostri 121 figli ci hanno insegnato l’arte e la gioia di essere genitori»

di Stefano Lorenzetti

Germana Giacomelli fa da madre a bambini di 8 Paesi; 5 suoi, 8 adottati e gli altri affidati alla sua casa-famiglia dai tribunali. «Prima di loro la mia vita era senza senso».-

Per il pranzo di Natale, a tavola saranno almeno in 24. Ma potrebbero essere cinque volte tanti. Perché Germana Giacomelli, 71 anni, la Grande Madre d’Italia, ha avuto finora 121 figli. L’avverbio non deve apparire asimmetrico rispetto all’età: nella sua gioiosa caserma continuano ad arrivarne. «Non la chiami comunità, neh? Siamo a tutti gli effetti, anche di legge, una famiglia».

Il mondo in casa

Cinque li ha partoriti lei. Otto li ha adottati. Gli altri le sono stati affidati dai tribunali per i minorenni di Milano, Brescia e Venezia. Li ricorda per nome a uno a uno. Il più piccolo aveva 15 giorni, ora ha 15 anni, «una femmina, Serena, vedesse quant’è bella». Il più grande ne ha 47, «un’altra femmina, Rossella, sono ancora la sua tutrice». Italiani, bosniaci, nigeriani, ghanesi, tunisini, marocchini, cinesi, brasiliani. Il mondo in casa. Quella di Bande, frazione di Cavriana (Mantova), dove mamma Germana vive con il marito Gianpaolo Brizzolari, fornaio, sposato mezzo secolo fa, e la loro tribù.

Angelo custode

Degli otto figli ai quali il capofamiglia ha dato un tetto e un cognome, la metà sono stati segnati dalla malattia. Cristina, 27 anni, è affetta dalla sindrome di Down; Laura, 24, è cerebropatica e spastica; Celeste, 22, epilettica, ha un’emiplegia e l’epatite C. Quanto al piccolo Roberto, è morto nel 2010, a soli 18 mesi. «I medici ci avevano detto che sarebbe sopravvissuto al massimo per 15 settimane», si rattrista la madre adottiva. «Non sentiva, non parlava, non deglutiva, aveva una tetraparesi, potevo nutrirlo solo con una sonda inserita nello stomaco. Però lei non ha idea di quanto amore ha sparso intorno a sé. Arrivò che non riusciva neppure ad aprire gli occhi e andò via avendoli spalancati su un mondo diverso. Ora è il nostro angelo custode».

Quand’è cominciata quest’avventura?

«Trentatré anni fa. Avevo già messo al mondo quattro figli. Mio marito possedeva due panifici, io un negozio di scarpe. Mi crede se le dico che non sapevamo come spendere i soldi? Auto, abiti griffati, viaggi, ristoranti, colf. Non mi mancava nulla eppure mi sentivo priva di tutto. Stavo malissimo. Ero in perenne attesa di qualcosa che desse un senso alla vita. Ma non sapevo dove cercarlo».

Alla fine come l’ha trovato?

«Mi sono messa a pensare agli altri. Le inquietudini sono svanite. Ho cominciato da chi avevo più vicino, da Laura, che dava ripetizioni a mio figlio Lorenzo. Decisi di aiutarla a diplomarsi insegnante. Il paese mormorava, la consideravano una ragazza di facili costumi. Si figuri i commenti quando restò incinta di un egiziano. Voleva abortire. Mio marito e io stabilimmo di darle uno stipendio fisso, 1 milione di lire al mese, affinché continuasse la gravidanza. Le diagnosticarono un tumore alla gola. La accompagnavo in ospedale a Brescia per la cobaltoterapia. Aveva il terrore di partorire un figlio deforme. Invece ebbe una bimba stupenda. Laura si sposò con un uomo che si prese cura di lei e della piccina. E diventò maestra elementare».

Il passo successivo fu prendersi in casa i ragazzi in affido?

«Non solo ragazzi. Serena, la più piccola che il giudice ci ha mandato, aveva appena 15 giorni di vita. In seguito fu adottata. Altri non se ne sono più andati. Davide è con noi da 30 anni».

E quando trovano una nuova famiglia?

«Mi prende il magone. Allora rovescio la casa, come se dovessi fare le pulizie di Pasqua. Per non pensarci».

Che storie hanno alle spalle?

«Così brutte che si stenta persino a immaginarle. Figli di tossicomani e criminali, bambini trovati per strada o violentati dai padri, orfani di entrambi i genitori. Ne abbiamo avuto uno sottratto alla madre che lo lavava con la candeggina per scacciare il diavolo dal suo corpo, finché un giorno gliela diede da bere; uno che veniva imbottito di barbiturici, pestati nel mortaio, per farlo stare tranquillo; uno che voleva dormire per terra perché i genitori a cui era stato tolto non gli avevano mai dato un letto».

Chi vi informa di queste tragedie?

«Un po’ le vediamo dagli atti giudiziari, un po’ affiorano spontaneamente con la terapia dell’amore. Due volte la settimana viene qui una psicologa. Ci aiutano altri tre educatori, fra cui una logopedista. Tutta gente pagata da noi. Finora nessuno dei ragazzi è mai caduto nella droga come i loro genitori, nessuno ha perso il lavoro. La Germana mette solo le pezze, neh? Però cucite bene».

Io non saprei da che parte cominciare.

«Ma no, ci riuscirebbe benissimo anche lei. Hanno bisogni minimi. Ricordo che uno di loro, appena arrivato dalla Sicilia, mi disse: “Vorrei la pasta con il sugo e andare a scuola, nient’altro”».

Con suo marito avrà dovuto fissare regole molto rigide.

«Poche. Non rubare, non mentire, non menare le mani. Qualcuno si meraviglia: “Perché il papà non ti dà mai le botte?”. Mi tocca rispondergli: ué, la mamma l’è minga un tamburo!».

Da dove le deriva questa vocazione?

«Forse dalla mia famiglia di origine, piuttosto numerosa. Sono cresciuta a Bovegno, nel Bresciano, prima dei sette figli di un minatore della Val Trompia. Si chiamava Montenero Robusto Alpino, perché era nato nel 1917, mentre suo padre stava in trincea nelle Alpi Giulie, sul monte Nero. Non essendo nomi di santi, il prete si rifiutò per tre volte di battezzarlo. Alla fine nell’archivio parrocchiale fu registrato come Augusto».

Era contento della sua scelta di fare da mamma ai figli di nessuno?

«Per nulla. Vent’anni fa, sul letto di morte, pronunciò il nome di tutti i miei fratelli, tranne il mio. Se ne andò senza salutarmi. Non era d’accordo neppure mia madre Rosi, ma almeno con lei, nell’ultimo anno di vita, sono riuscita a ricucire. Però non li biasimo. Solo ora che mi avvicino alla loro età mi rendo conto di quanto dirompente dovette sembrargli la scelta di questa figlia un po’ matta. Anche qui a Cavriana l’hanno capita davvero in pochi».

Che cosa c’è da capire nell’altruismo?

«Lo dice lei. Molti compaesani pensano che puntiamo ai 500 euro mensili erogati dai Comuni per ciascun affido. Pazienza, che vadano a farsi benedire».

Ma questi contributi bastano?

«Per vitto, abbigliamento, bollette, visite specialistiche, terapie, vacanze, corsi di nuoto e di sci? La casa, 13 camere, 6 bagni, 9.000 metri quadrati di giardino, piscina, ha bisogno di continui restauri. Io ho una pensione di 675 euro al mese, il Brizzolari poco più. Per fortuna pane, pizza e brioche li porta lui dal panificio, dove ha assunto tre dei nostri ragazzi che abitano per conto loro. E posso contare sulle mie sorelle Fabrizia e Mina».

Non vi aiuta nessuno dei figli che avete avuto, o avete, in affido?

«Da loro non accetterei un euro, è giusto che si tengano i loro stipendi. A volte rimprovero mio marito: ma vendilo, ’sto forno. Mi risponde: “E dopo come facciamo?”. È lui il mio sponsor ufficiale, non dice mai di no. Così, a 75 anni suonati, ogni notte si alza all’1.30, va al lavoro, torna alle 14, sta con i ragazzi fino alle 19, poi si corica di nuovo senza cenare».

E lei?

«Alle 21 sono già a letto anch’io».

Perché avete dipinto la casa di rosa?

«Non è il colore della speranza? Trent’anni fa mio marito fu sfrattato dal suo negozio di Desenzano. In sei mesi finimmo in bolletta».

Come ne usciste?

«Un commerciante di farine, dal quale Gianpaolo non aveva mai comprato nulla, gli disse: “Ho trovato a Peschiera del Garda la bottega che fa per te”. Non chiese neppure la mediazione».

Che cos’è lo svago per lei?

«Stare in famiglia. Le mie uniche uscite da questa casa sono per andare dal medico, al supermercato, in banca e in chiesa. Non ho ricordi di essere stata al ristorante o al cinema. Nel 2017 i figli hanno insistito per mandarci otto giorni alle Canarie, mio marito e io, da soli. È stato come spedirmi su Marte. Ma sono felice, ho trovato ciò che mi mancava. Accogliere fa vedere la vita in modo totalmente nuovo. Doni dieci e ricevi un milione. Come dice sempre il Brizzolari, che cosa saremmo senza questi ragazzi?».

Perché le mamme italiane fanno in media solo 1,24 bambini a testa?

«Andiamo tutti di corsa. Per arrivare dove, poi? Neanche le mie due figlie hanno figli. “Abbiamo già dato”, scherzano, e un po’ è vero, perché mi hanno aiutato a crescerne molti. A sposarsi non ci pensano, hanno pure mollato i fidanzati».

Come mamma ha commesso errori?

«Senz’altro. Nessuno nasce bravo. Tutti i giorni speri di fare la cosa giusta. Il guaio è che non sai quale sia. Quando la imbrocchi, devi capire che non è mai merito tuo. Ho dato troppo? Ho dato troppo poco? So solo che i nostri 121 figli ci hanno insegnato a diventare genitori».

Ma lei e suo marito vi chiedete mai che fine farà la vostra grande famiglia quando non ci sarete più?

«Le voglio raccontare la storia di Laura, figlia di una tossicodipendente. Nacque al sesto mese di gravidanza, fu subito battezzata perché non doveva arrivare a sera. Il referto medico era lungo quanto la mia lista della spesa: cerebropatia, tetraparesi, retinopatia. Muoveva soltanto un braccio, non riconosceva nessuno e rantolava, perché intubandola le avevano lesionato i polmoni. All’età di 18 mesi la adottammo. Mia sorella Fabrizia la portò a San Giovanni Rotondo, tenendola su per le ascelle. Laura non voleva più staccarsi dalla tomba del frate di Pietrelcina. La mattina dopo, appena sveglia, esclamò: “Padre Pio mi farà camminare!”. Ritornò a casa sulle proprie gambe. Capisce? Qualcuno veglierà su questa famiglia anche dopo che noi ce ne saremo andati».

da www.corriere.it

@Riproduzione Riservata del 14 dicembre 2018

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