Il caso di Antonella e Alfio. L'aborto dei poveri che non siamo riusciti a scongiurare
Il bambino di Alfio e Antonella – del quale scrissi sabato scorso su queste pagine, suscitando una commovente mobilitazione tra i lettori di Avvenire – non avrà mai un nome ....-
Ci siamo. Avremmo potuto non esserci ma ci siamo. Con mille limiti, mille problemi, mille aspettative. Non sempre i nostri sogni si sono trasformati in realtà, è vero. Non sempre nella vita abbiamo realizzato quel che desideravamo. È tutto vero. Ma ci siamo, ed è questo quello che più di ogni altra cosa conta. Sto leggendo in queste ore la confessione di un pentito della camorra. Dopo aver insozzato di sangue le sue mani, il suo paese, la sua gente, inizia a collaborare con la giustizia. I vecchi complici si vendicano, sterminando una parte della sua famiglia. Chi rimane in vita lo abbandona per il terrore di fare la stessa fine. Solo. Terribilmente, incredibilmente, spaventosamente solo con se stesso e con quel che gli resta della sua coscienza. Ore buie oltre ogni dire. Proprio allora incontra se stesso, prova vergogna per ciò che ha fatto, prende coscienza della mostruosità della vita precedente. Il dolore provato per l’assassinio di suo padre, onesto contadino, ucciso per una vendetta trasversale, gli fa provare orrore per coloro che da lui furono ammazzati. Negli anni del 'successo' aveva arraffato milioni di euro. Possedeva tanto ma non assaporava niente. Adesso prova gioia a coltivare un pezzetto di giardino.
A contemplare le gemme che a primavera fioriscono sugli alberi rinsecchiti. A gioire per le piccole cose. Che cos’è la vita? Che cos’è la morte? Chi sono io? Chi siamo noi? C’è qualcuno ad aspettarci quando quaggiù tutti ci hanno detto addio? È proprio vero che il padrone del cielo e della terra impazzisce d’amore per ognuno di noi? Chi è arrivato prima sulla terra ha l’obbligo di aiutare i figli a fermarsi, riflettere, gestire gli istinti, i desideri, le fantasie. A coniugare sentimenti e volontà, egoismi e ragione. Il cuore dell’uomo è un abisso del quale mai conosceremo il fondo. Tutti amiamo, ma non tutti amiamo le stesse cose, le stesse persone. Per che cosa vale la pena spendere le proprie giornate? Le proprie energie? I propri anni? Il bambino di Alfio e Antonella – del quale scrissi sabato scorso su queste pagine, suscitando una commovente mobilitazione tra i lettori di Avvenire – non avrà mai un nome, il suo volto ci sarà per sempre sconosciuto. I genitori hanno ceduto. Purtroppo. La paura di non farcela è stata più forte della speranza. Il grembo vuoto della mamma è una metafora.
Ci richiama il vuoto col quale, sovente, siamo chiamati a fare i conti. Un vuoto legale, spirituale, psicologico, affettivo.Vuoto di solidarietà, di carità, di fraternità, di senso. Se siamo qui a gioire, soffrire, governare, pregare, è perché ci siamo. Se possiamo accarezzare la vita è perché non fummo scartati. La società dello scarto è spaventosamente vigliacca. Elimina il più debole, l’indifeso, il vecchio, il malato. La dignità di una vita non risiede nella giovinezza, nella ricchezza, nella bellezza, nel casato. Ogni vita gronda dignità.
Questa verità deve assurgere a patrimonio dell’umanità. Ogni vita canta le sue emozioni, il suo travaglio, il suo mistero. Se solo sapessimo metterci in ascolto, fare silenzio, ritornare all’antica arte della meditazione. Ritagliarci il tempo per una giornata di ritiro. Possiamo onestamente dire di aver fatto tutto ciò che era nelle nostre possibilità per impedire ai tanti bambini rimasti per sempre senza nome di non essere gettati via? Se avessimo gestito meglio le nostre risorse, i nostri affetti, i nostri egoismi, la nostra sessualità, le politiche familiari, quanti di loro rallegrerebbero oggi le nostre case? Tutto passa.
Che cosa resta di questa inarrestabile cascata della vita? L’amore. Dio è amore, misericordia, bellezza, tenerezza. Niente abbiamo comprato al mercato, di niente siamo padroni. Tutto ci è stato donato. E solo nel farci a nostra volta dono riusciamo a trovare il bandolo della matassa, il senso della vita, i pennelli con cui colorare le giornate. È una sfida. La gioia di cui siamo golosissimi esiste, la trovi quando ti fai accanto a chi soffre, a chi ha bisogno di una mano, della tua mano. Come l’aria te ne puoi inebriare ma non si fa mangiare. È una sfida, anche quella di evitare l’aborto a motivo della povertà.
Chi accumula per se stesso si ritrova appesantito e oppresso da inutili ricchezze. Solo chi dona sperimenta la gioia vera. Ringrazio tutti coloro che hanno donato qualcosa perché il piccolo non nato – lo chiameremo Emmanuele – potesse continuare a vivere. La vostra generosità non andrà perduta, servirà a dare coraggio e serenità a un’altra mamma impaurita. Sarà usata per strappare al disumano aborto dei poveri un’altra vita. Amo pensare che saranno questi bambini non nati ad aprirci un giorno le porte del paradiso. A intercedere per noi perché il Padre della vita ci usi misericordia.
Le donazioni arrivate in questi giorni sul conto della «Voce di chi non ha voce» verranno utilizzate per casi come quello segnalato da don Maurizio dei quali ci giunge notizia. Nulla va perduto, nel nome della vita. Grazie di cuore.
da www.avvenire.it
@Riproduzione Riservata del 17 maggio 2017