Il dolore dei bambini, la prima cura sono i genitori
di Carlo Belleni, Medico del Dipartimento di Pediatria dell’Ospedale universitario di Siena
da www.repubblica.it
@Riproduzione Riservata del 04 gennaio 2022
Parlare di dolore dei bambini ci spaventa come cosa orrenda e ingiusta; il bambino piccolo non parla, non può reclamare e i suoi genitori possono non accorgersene. Possiamo enumerare tanti progressi nella terapia del dolore infantile sia con interventi farmacologici che non farmacologici; basti pensare all’uso della clownterapia negli ospedali o di nuovi farmaci analgesici. Purtroppo, non basta. La medicina moderna chiede una rivoluzione di come concepiamo il dolore infantile.
Già: contro il dolore occorre lottare per la salute, non solo l’esercizio di tecniche. È una rivoluzione copernicana: dal curare il dolore come parte del curare la salute, al curare la salute per curare il dolore. Perché per curare la sofferenza del bambino occorre curare anche quella della famiglia e intervenire sull’ambiente. L’assenza di questa cura totale – che si chiama diritto alla salute – provoca sofferenza, che i bambini pagano tanto più quanto più piccoli sono.
Infatti, oggi sappiamo che il dolore fisico provoca a distanza di tempo delle alterazioni dell’espressione di certi geni, o nello sviluppo cerebrale, come per esempio ha mostrato di recente uno studio sul neurosviluppo eseguito nella neonatologia del Gaslini di Genova. Ma lo stesso fa la carenza di affetto, come mostrano i lavori di Nuria Makes sui bambini abbandonati alla nascita, perché il bambino nei primi mesi di vita sviluppa il suo essere, secondo dei percorsi inevitabili che, se si saltano o se subiscono interferenze, difficilmente si recuperano.
Per Donald Winnicott, uno dei padri della psicologia pediatrica, il bambino vive nei primissimi mesi di vita in completa simbiosi con la madre, non potendo distinguere il suo io dalla realtà circostante; è immedesimato con il tutto, e se improvvisamente qualcosa del suo ambito sparisce, per esempio la madre – costretta a tornare al lavoro – o la sua stanza, che non vede più perché sballottato da un luogo all’altro, è come se sentisse togliersi un pezzo di sé. Questo, se ripetuto, può destrutturarlo. Gli stimoli esterni, se non sono addolciti e contenuti, diventano per lui delle aggressioni che si trascinerà dentro per anni. Per questo occorre un serio lavoro in ospedale e in famiglia per non ostacolare i processi mentali di attaccamento, ben descritti da un altro pilastro della psicopedagogia, John Bowlby.
Occorre prevenire questi traumi con un ambiente adatto e con la presenza genitoriale, che gradualmente si farà indietro per permettere le esperienze e la formazione del sé. E anche questo passo indietro non dovrà trovare momenti di trauma o intrusioni indebite.
La presenza affettiva è ancora più importante della presenza di cibo, come mostravano gli studi di Henri Harlow sui piccoli di babbuino, che dovendo scegliere tra una bambola di metallo da cui potevano prendere latte e una bambola con le sembianze della mamma ma senza latte, sceglievano la seconda. Carenze ambientali devono essere evitate nei luoghi di cura ma anche nelle case, dove ancora vige il mantra sbagliato che non conta il tempo ma la qualità del tempo che si dedica ai piccoli.
Come abbiamo riportato con colleghi di diversi paesi in un numero speciale della rivista Frontiers in Pediatrics che ho curato su questo tema, la lotta al dolore non è più solo la scelta di farmaci giusti o delle manovre giuste o dell’evitare certi interventi stressanti. È un impegno quotidiano negli ospedali e nelle case, per contenere affettivamente i bisogni del bambino, come riporta per esempio nel suddetto numero di Frontiers, Rebecca Pillai-Riddell: "È fondamentale tenere conto dello sviluppo neurobiologico e psicosociale di un bambino pretermine quando si considerano opzioni per la gestione del dolore".
La prima lotta al dolore inizia in casa e sulla soglia dell’ospedale. È lì che si afferma il diritto alla salute: in come la casa è concepita e in come l’ospedale è stato pensato; senza un progetto pedagogico l’una e l’altra diventano possibili fonti di sofferenza. Allora va detto ben chiaro: il diritto alla salute a casa (le coccole fatte al bambino, il suo gioco, il tempo di compagnia che lui pretende) e nel sistema sanitario (la scelta preferenziale per curarlo a casa sua quando possibile, la mamma che possa stare con lui quando è ricoverato, il rispetto dei suoi ritmi) hanno per la salute la stessa validità delle medicine e sono la base della lotta al dolore.
Il diritto del bambino a non sentire il dolore inizia dal diritto dei suoi genitori di essere consapevoli di essere loro stessi una medicina, e quindi di avere facilitazioni sociali per non soggiacere alla fretta dettata dal bisogno di correre o ritornare al lavoro, lasciando il bambino per ore davanti alla televisione o nella sua cameretta da solo. Perché ne pagherà il prezzo.