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Insicuri ma felici, ecco i nuovi padri

di Paolo Beltramin ed Elvira Serra

Sono emotivi, impegnati, coinvolti (tra giochi e dubbi esistenziali). Ma non chiamateli «mammi». «Ogni paternità è una decisione e richiede anche un’adozione».-

È la festa di fine anno in un asilo di Milano. La maestra chiede ai bambini diportare al centro della sala un genitore per farlo ballare. Richi, cinque anni emezzo, raggiunge i suoi, li guarda e li spiazza: «Voglio il papà». Incurante deisalti mortali fatti dalla mamma per essere  quel pomeriggio, senza saperlo(o era intenzionale?) ha reso suo padre immensamente Happy, come lacanzone di Pharrell Williams che li ha visti aprire le danze mano nella mano.

Eccolo lì uno dei «nuovi padri», in quella pista da ballo improvvisata di una scuola materna metropolitana: partecipativo, accudente ed emotivamente coinvolto, secondo la definizione del nuovo modello di maschilità raccontato dalla sociologa Sveva Magaraggia (Di certo mio figlio non lo educo allo stesso modo dei miei). E forse proprio lì è Cosa resta del padre, quello che lo psicoanalista lacaniano Massimo Recalcati sta ancora cercando nella versione riveduta e corretta del suo saggio, in uscita a luglio con Raffaello Cortina Editore. Perché se è vero quanto ha scritto — «La funzione del padre custodisce il non sapere, non con un’intenzione nichilista, ma come condizione della trasmissione del desiderio...» — la mancanza di certezze è l’unica cosa certa per il papà del ballo raccontato sopra.

I dubbi sono il primo grado di separazione dai nostri «vecchi» padri. Passo abbastanza tempo con mio figlio? Sono in grado di parlare con lui? Lo sarò anche quando non mi cercherà più come adesso? È giusto vietargli le cose che io detesto, ma che fanno tutti, come i videogiochi? E gli altri padri, quelli che hanno più tempo e più pazienza, sono anche migliori di me? Paragoni che si sommano all’altro, epico, infelicemente espresso dall’ingeneroso neologismo del «mammo»: il confronto con la madre. Qui ha dimostrato abbastanza senso dell’ironia Fausto Brizzi nel suo recente Se prima eravamo in due (Einaudi), cronaca semiseria dell’attesa e della nascita della primogenita Penelope Nina. Proprio all’inizio racconta di come al padre non venga riservata neppure l’ultima invocazione in punto di morte: «Unica eccezione conosciuta è Gesù di Nazareth...». Alla resa dei conti, per lui, «il papà è un extra del dvd materno, uno di quelli che nessuno clicca mai, tipo i sottotitoli in cirillico o il commento del regista». E se mai come ora ci sarebbero tutti gli ingredienti per rafforzare in maniera esclusiva il legame tra pargolo e genitore maschio — stesso immaginario, stessi eroi, stessi fumetti — non basta giocare insieme con i Lego o stringersi sul divano per le sorti di Ian Solo.

Neppure così va bene. Non va mai bene. Non c’è redenzione tra il padre odiato da Teresa Ciabatti ne La più amata (Mondadori), quelli sbagliati Da dove la vita è perfetta di Silvia Avallone (Rizzoli) e quello compreso troppo tardi da Paolo Cognetti ne Le otto montagne (Einaudi). «Il padre da autoritario è diventato autorevole», assicura Ilaria Grazzani, docente di Psicologia dell’educazione alla Bicocca di Milano. Ma qual è il prezzo da pagare, se il papà fa la mamma?

Scrive Simona Argentieri, ne Il padre materno (Einaudi): «I padri hanno conquistato aspetti autentici del rapporto con i bambini, ma a spese di altri livelli: quelli delle funzioni che un tempo, a torto, si consideravano specificamente maschili. In realtà si tratta delle funzioni adulte, al servizio del conflitto sano e vitale, delle passioni, della strutturazione di una personalità adulta». Già negli anni ’60 Alexander Mitscherlich sanciva il declino dell’autorità paterna e addirittura parlava di una società senza padre. Ma adesso — fa notare Anna Laura Zannatta in Nuove madri e nuovi padri (Il Mulino) — «il modello tradizionale di paternità è in crisi evidente, e non ne è emerso ancora uno nuovo che lo possa sostituire».

Gli adolescenti non riescono a esprimere la loro sfida in famiglia e la spostano fuori, con buona pace di quei genitori più concentrati a ottenerne l’approvazione che a dir loro qualche no (vedete su Generazione tvb, di Tiziana Iaquinta e Anna Salvo, il Mulino). A dispetto di cotanto sforzo, pure nell’indagine realizzata in esclusiva per il Corriere da Eikon Strategic Consulting con il contributo non condizionante di Ibsa farmaceutici Italia su un campione di 2 mila uomini tra i 18 e i 70 anni, i padri sono «buoni» per il 48,9% degli intervistati contro il 60,3% delle mamme; sono «forti» solo per il 20,2%; e per il 9,8% sono proprio «confusi». Fanno il primo figlio a 35 anni e due mesi, assistono al parto nove volte su dieci (il 92%, in linea con la media europea): di una nuova sensibilità sociale sul ruolo di questi padri si occupa da sempre Maurizio Quilici (autore di Storia della paternità. Dal pater familias al mammo, e di Grandi uomini, piccoli padri). Sul settimanale Left ha spiegato come la «rivoluzione paterna» sia passata attraverso la fisicità, la capacità liberatoria di esprimere i sentimenti, la dolcezza, l’empatia. Tutti aspetti che trovano la sintesi perfetta in un termine che però è squalificante, il mammo, appunto: vale a dire, nella migliore delle ipotesi, l’aiutante della mamma.

Questo cambiamento, davvero sentito e a tratti rivendicato dai padri, non trova corrispondenza nemmeno in una politica sociale adeguata. I due giorni di congedo obbligatorio, che saranno 4+1 il prossimo anno, sono ben altra cosa rispetto alle 10 settimane retribuite in Svezia (e alla media Ocse di otto). «Eppure il cambiamento culturale non può che partire da lì», insiste la demografa della Bocconi Letizia Mencarini, autrice prolifica su questi temi. In questa lotta impari dobbiamo considerare degli eroi epici quei pochi italiani — davvero ancora troppo pochi — che si occupano dell’accudimento primario del bambino. Meritano una medaglia anche se sono il fanalino di coda in Europa, come dimostra l’inedito paper comparativo realizzato per FamiliesAndSocieties da Maria Letizia Tanturri e Annalisa Donno. Meritano un premio perché un padre presente è alla base del successo del figlio. Prova ne è l’emarginazione degli afroamericani negli Stati Uniti, costretti per secoli alla condizione di schiavi. La forte ascesa degli asiatici, dotati nella stragrande maggioranza dei casi di un padre molto presente, è la risposta speculare.

«Se nasci in una famiglia dove non c’è il padre hai un’altissima probabilità di restare tra gli esclusi. Barack Obama, allevato da una madre single, lo ha capito e si è impegnato a fondo per restituire ai neri l’orgoglio della paternità con politiche mirate che hanno dato una svolta epocale al tema della genitorialità», ci spiega Luigi Zoja, autore di quel bellissimo e monumentale saggio che non dovrebbe mancare nella libreria di ogni famiglia: Il gesto di Ettore (Bollati Boringhieri), ripubblicato lo scorso anno. Zoja non dà ricette. Ma una cosa definitiva la scrive: «Per essere padri, a differenza dall’essere madri, non basta generare un figlio, è necessaria anche una precisa volontà. Ma se ogni paternità è una decisione, ogni paternità richiede un’adozione, anche se il figlio già è stato materialmente e legittimamente generato da quel padre». Una scelta che si rinnova in una sgangherata pista da ballo, al ritmo di Happy, padre felice.

  da www.corrieredellasera.it

@Riproduzione Riservata del 18 giugno 2017

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