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LA MATERNITÀ SOFFERTA MA IMMENSA DI CHI HA UN FIGLIO GRAVEMENTE DISABILE

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di Micol Ballotto
da www.famigliacristiana.it
@Riproduzione Riservata del 22 gennaio 2024

Intervista a Valeria Ancione sul suo romanzo "E adesso dormi", la storia di una donna provata dalla vita, che nel momento in cui si ritrova da sola con il suo bambino cerebroleso, scopre tutta la forza di madre per ripartire con dignità e coraggio.-

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Un padre verbalmente abusante, una madre succube, un marito violento e un figlio di cinque anni disabile: la vita di Geena Castillo non è quel che si dice “rose e fiori”. Affiancata nella sua estenuante esistenza dall’amica e vicina di casa Lola, la quarantaduenne sogna spesso di liberarsi del coniuge, che dopo averla convinta ad abbandonare gli Stati Uniti e a seguirlo in Italia ha smesso gli abiti dell’amante affettuoso e ha indossato quelli del carnefice. Quando un giorno la polizia suona alla porta e le comunica che il corpo dell’uomo è stato trovato senza vita, Geena non è né sorpresa né triste: è la sua occasione di essere finalmente libera, insieme a quel bambino che pur non parlando domina le sue giornate. 
E adesso dormi è il quarto libro di Valeria Ancione, scrittrice e giornalista, che ai lettori consegna una nuova normalissima eroina del quotidiano. Con Famiglia Cristiana l’autrice ha parlato del suo desiderio di raccontare le donne, di dipingere il loro universo, e di far luce, con questo romanzo, sulla non diversità della disabilità. 

Il titolo richiama la frase con cui la protagonista cerca sempre di far addormentare il suo bambino. È solo una questione di rimandi intertestuali? 
«In realtà, è il primo titolo a cui ho pensato quando ho cominciato a scrivere il romanzo, che rispetto ad ora aveva un finale molto diverso. Diciamo che l’esclamazione racchiude un doppio significato... se in senso positivo o negativo si scoprirà solo alla fine del libro».

La trama ruota attorno alla vita di Geena (naturalizzata italiana con il nome Gina), alle prese con due lavori, un marito scomparso, Raffaele, e un figlio disabile, Jonathan. Dove ha preso l’ispirazione?
«Da Francesco, il bambino a cui è dedicato il romanzo, che ha una disabilità ed è il figlio di una mia carissima amica. La mia esperienza mi dice che quando la disabilità la indossi non è più diversità, bensì normalità: per questo nel libro la menomazione di Jonathan risulta la cosa più bella della vita di Gina, quella che le dà la forza e la determinazione per risolvere i suoi guai. Non è una sfortuna, ma un modo diverso di vivere la vita».

La maternità, nel romanzo, non viene dipinta come una missione a cui tutte le donne devono ambire: Gina stessa ha difficoltà a gestire suo figlio, a volte lo tratta male, non lo capisce, piange.
«La maternità non è una favola, sia che tu abbia un figlio in salute, sia che tu non lo abbia. Nel caso di Gina, lei si trova ad avere a che fare per sempre con un bambino che, cerebralmente, è come un neonato e che, come tutti i neonati, comporta una rinuncia totale di sé. Non esiste la perfezione nella maternità, dobbiamo ricordarcelo: perseguire questo assurdo ideale ci porta ad annullarci e a stare con il fiato sul collo dei nostri bambini».

Nel libro sembra ricorrere l’idea del trio: tre sono le amiche protagoniste, tre i membri della famiglia originaria di Gina e di quella che si crea, tre i vicini di casa che si prendono cura di lei. È una coincidenza o c’è di più?
«È una coincidenza, ma trovo meraviglioso che chi legge il libro noti delle cose a cui io non avevo minimamente pensato! [ride, ndr]».

Gina è la quarta donna protagonista dei suoi romanzi: prima di lei ci sono state Nina ed Eva in La dittatura dell’inverno, Patrizia in Volevo essere Maradona, Sara e Nenzi in Il resto di Sara. C’è un filo rosso che le lega? 
«Nina ed Eva appaiono, un po’ alla Hitchcock, anche in questo romanzo. Quando scrissi La dittatura dell’inverno, la mia editor di Mondadori mi disse una frase bellissima: “Come racconti tu le donne, nessuno”. Io mi occupavo di calcio femminile al Corriere dello Sport, avevo parecchio a che fare con le donne, in un ambiente tra l’altro fortemente maschile. Ed è questo che lega le mie protagoniste: sono diverse, ma sono tutte donne». 

È un modo per dare voce al femminile?  
«Esattamente. Io sono un’appassionata di Marcela Serrano, ho sempre voluto essere come lei, per questo parlo di donne: mi piace portare sulla pagina la loro capacità di innamorarsi delle persone, delle cose, di quello che fanno, ma anche narrare le loro imperfezioni e le loro emozioni. Ho dato voce a tante tipologie di donne e a tante fragilità. E sono tutte storie che mi arrivano dalla realtà, da racconti diretti o indiretti che sento».

Tornando al suo romanzo: in un’intervista a Repubblica lei ha affermato che il suo editore ha faticato un po’ ad accettare che una delle protagoniste, Mara Gorlier, fosse un’avvocata, e non un avvocato. La spinta all’emancipazione passa dunque dal linguaggio?
«Assolutamente sì: il linguaggio ha un suo peso. Mi disturba, lo ammetto, l’uso dell’asterisco, perché non ha senso nella grammatica italiana, ma tutti i nomi maschili che sono trasformabili nel genere non vedo perché non possano essere usati al femminile. Più diciamo “avvocata”, ad esempio, più ci abituiamo a sentirlo e a usarlo, così come siamo ormai abituati a sentire “la ministra” o “la sindaca”. Eppure, a tantissime donne piace svolgere un lavoro considerato tipicamente da maschio e farsi chiamare con il nome della professione al maschile». 

E adesso dormi è il racconto di un’amicizia femminile, ma anche di schemi disfunzionali che si trasmettono di genitori in figli: Gina, infatti, è cresciuta con un padre padrone e una madre succube, e con Raffaele ha involontariamente ricreato la stessa dinamica. Come si spezza il circolo?
«Non è facile. Queste dinamiche fanno parte soprattutto della mia generazione: avevo compagne di classe che subivano violenza, anche fisica, da parte del padre, oppure vivevano con madri che non avevano il coraggio di opporsi a certe angherie perché altrimenti poi le “prendevano”. Erano cose normali per la mia epoca. Che continui a esserlo tutt’ora, mi fa impressione: vedo molte donne giovani che hanno un atteggiamento, se non succube, per lo meno servile. Forse il circolo si può spezzare solo per partito preso, decidendo insieme al proprio partner che le cose si fanno in due, che si impara insieme, che si è una squadra. La tendenza a ricercare nel compagno la figura paterna, purtroppo, continua a essere una possibilità fortissima. È come se non fossimo capaci di liberarci di ciò che abbiamo subìto, pertanto lo andiamo a cercare: è la nostra zona di conforto, perché in quella cosa là sappiamo come muoverci». 

Viene un po’ spontaneo, per chi lo ha visto, pensare al film di Paola Cortellesi, C’è ancora domani, che pur avendo una trama diversa affronta in fondo lo stesso tema. Che ne pensa, lei? 
«L’ho visto insieme a mia figlia, sollecitata dal grande successo che aveva ottenuto. A prescindere dal giudizio estetico, ciò che importa è quello che questo film ha seminato e le emozioni che ha suscitato: se continua ad attirare gente nei cinema, significa che è un film potente».

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