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La rabbia uccide. Peso dei femminicidi, cause, antidoti

di Marina Corradi
In Italia ogni tre giorni nel 2016 una donna è stata uccisa dal marito, o dal compagno, o dall’ex convivente. 120 donne assassinate. A volte erano madri, altre volte giovanissime. Come le ultime due che hanno allungato il tragico elenco nel 2017: Alba Chiara, trentina, 21 anni, e Nadia, di Dignano, in Friuli, 22 anni. Due ragazze, gli ultimi nomi della terribile catena che prosegue con un ritmo analogo anche quest’anno. Pressoché inalterata. A guardare le statistiche infatti la sorpresa è che da anni il bilancio delle mogli o fidanzate uccise è sostanzialmente stabile: secondo l’Istat, 136 nel 2014, 128 nel 2015. Una tragica "media". Perché allora la percezione comune è che questi reati siano aumentati?
Perché negli ultimi vent’anni gli omicidi di uomini, compiuti soprattutto dalla criminalità organizzata, sono notevolmente diminuiti: dai 1916 del 1991 sono passati ai 468 del 2014. Quindi i femminicidi, che negli anni 90 erano un decimo degli omicidi totali, oggi ne costituiscono circa un terzo. In un caso su tre di morte violenta, la vittima è una donna uccisa dall’uomo che ha accanto. Che abbia a che fare, con questo atroce reiterarsi di crimini uguali nel giro di poche ore, anche lo spazio che i media danno a simili fatti? È possibile. Si sa che la notizia di un suicidio può creare emulazione. Non è da escludersi che il clamore con cui si raccontano i femminicidi ingeneri un fenomeno analogo, e forse fra giornalisti dovremmo rifletterne. Tuttavia, è chiaro che resta insoluto il nodo della questione: come è possibile una tale violenza all’interno della coppia, in tempi in cui, in teoria, è sempre più facile e veloce scegliersi, e lasciarsi.
Ma proprio qui sembra stare la prima contraddizione insita nel fenomeno. La maggior parte dei mariti e fidanzati e conviventi omicidi confessano che hanno ucciso perché "lei" voleva lasciarli. Andando a rileggere le storie di quelle coppie spesso si scopre che l’uomo era violento, picchiava e minacciava, e lei taceva e sopportava, a volte per amore, a volte per via dei figli. È quando la donna, alla fine, dice di no, che può scattare la violenza estrema. Spesso in colluttazioni brutali, in cui un coltello o un oggetto domestico diventano armi letali, e la vittima viene colpita ripetutamente, come dentro una rabbia incontenibile che esplode.
Dunque, proprio nel tempo in cui è comunemente ritenuto normale avere più di una storia di amore e poi rapidamente lasciarsi, i numeri testimoniano che resta inalterata una percentuale di uomini che non tollerano l’abbandono, nella maniera più assoluta. E se fino ad ora gli assassini avevano più di trent’anni, ultimamente l’età media di chi uccide si sta abbassando. Non è un residuo del passato la violenza mortale sulle donne, e non c’entra nemmeno con l’immigrazione e le nuove culture: il 75 per cento di chi infierisce sulla propria donna è italiano.
Statistiche stabili, statistiche che raccontano di una ferocia costante. Pazzia? Chi conosceva quegli uomini li considerava, fino al giorno prima, del tutto normali. Un anno fa, dopo l’ultima raffica di donne uccise, chiedemmo a Eugenio Borgna, grande vecchio della psichiatria italiana e scrittore, se vedeva della pazzia in questa catena di sangue. Borgna disse di no. Disse, all’interno di una desertificazione dei valori, di una reificazione dell’altro e dell’altra, di un considerare la propria donna come una cosa. Di uomini che si sentono minacciati dall’abbandono, fino a distruggere l’oggetto che sfugge dalle loro mani: come fa un bambino con un giocattolo che si è rotto. Un istinto arcaico, aggiunse il professore, ma non ebbe timore a chiamarlo per nome, quell’istinto: «malvagità», pronunciò.
E certo, come oggi tutti concordano, occorre prevenire, mettere in allerta le donne contro i compagni possessivi e violenti, insegnare loro a chiedere aiuto agli amici, ai parenti, alle istituzioni. Tutto questo è necessario e indispensabile, ma tardivo. Cosa si può fare contro la violenza che abita in noi, nel fondo di noi?
Ostinatamente, pazientemente educare i figli che oggi sono solo bambini ad accettare un no, un limite, una fine, a 'rispettare' senza distruggere nella rabbia. E forse, anche, educare a non dipendere solo e soltanto, drammaticamente, da un amore, fosse anche il più grande, perché se quello viene meno si può crollare come un castello di carte. Nella certezza e nella memoria di un Dio che ci ama sta anche la sorgente di un equilibrio profondo; di un bene grande che, comunque vada nei tempi degli amori effimeri e dei divorzi veloci, nessuno ci può togliere. Di un bene che non ci abbandona, e non ci lascia distrutti, annientati, rabbiosi.
da www.avvenire.it
@Riproduzione Riservata del 03 agosto 2017

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