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La storica comunità. L'abbraccio contro la droga, la «cura» di San Patrignano
La storica comunità. L'abbraccio contro la droga, la «cura» di San Patrignano.-
Il mondo è fuori, laggiù, vicino al mare di Rimini che si prepara all’assalto estivo. «Ogni tanto quando passo in macchina la sera vedo le ragazze – racconta Rocco, che guida –. Hanno le bottiglie in mano, e queste facce... A quindici anni fanno tutto sai? L’alcol, le droghe sintetiche, l’eroina». Il mondo, duemila volte l’anno, dal mare sale su, a Coriano, e si ferma nel piazzale di San Patrignano. Per chiedere aiuto. Eccolo, il paese dei “cattivi ragazzi”: 1.300 abitanti, 400 nuovi ingressi l’anno. Dalla porta entrano marchiati così. Oltre la porta, la cattiveria non esiste. E nemmeno l’alcol, la droga. Restano soltanto loro: disperati, disfatti. «La malattia non è la droga, quella è il sintomo», spiega subito Antonio Boschini, responsabile terapeutico della comunità fondata nel 1978 da Vincenzo Muccioli. Significa che finito di scrivere sul foglio l’elenco delle dipendenze che i ragazzi portano con loro, di droga non si parla più. «La malattia viene fuori col tempo, ed è sempre la stessa – continua Boschini –. Sono insicuri, totalmente privi di autostima, hanno paura delle relazioni». Come se nessuno li avesse mai visti, o amati, per davvero. A San Patrignano hanno fatto anche i conti, d’altronde: il 50% dei giovani che passano da qui hanno genitori separati, il 22% storie di dipendenza da sostanze in casa (il padre, la madre), il 20% sono stati vittime di abusi sessuali o violenze.
Il male del mondo si riversa sui più piccoli. E quanto sono piccoli. La comunità ha due centri minori, uno maschile e uno femminile. Niente da stupirsi, qui, se una ragazzina di 14 anni arriva coi segni delle siringhe nelle braccia: «L’eroina iniettata in vena ha ripreso piede in maniera impressionante – continua Boschini – e nemmeno noi sappiamo spiegarci perché». Quello che invece è chiaro ormai è il percorso che gli adolescenti fanno rispetto all’uso di sostanze: «L’alcol e la canna arrivano proprio intorno ai 14 anni ed è ormai diffusissimo. Dipende dai fattori ambientali, dal mondo che circonda i nostri adolescenti, dalla deriva socio-culturale innanzi a cui tutti ci troviamo». Il salto verso la dipendenza si consuma là dove c’è disagio (affettivo, esistenziale) e negli ultimi anni è diventato devastante: «Abbiamo ragazzini che arrivano segnati dall’alcol, dalla ketamina, dall’eroina e dall’azzardopatia insieme. Nelle ragazze – a San Patrignano sono il 20% degli ospiti – quasi sempre si aggiungono i disturbi alimentari».
La cura? Si chiama fare qualcosa per qualcun altro. L’abbraccio, che a “Sanpa” è il gesto più comune. A parole fa sorridere, nei fatti muove la comunità dall’alba al tramonto: riempie le stalle, le vigne, il caseificio, i ristoranti (due aperti al pubblico), le cucine, il forno, la scuola. E anche il reparto di degenza e l’hospice per malati terminali ospitati nella struttura: 50 posti letto, molti occupati da malati di Aids. Di cui si prendono cura i ragazzi, che vanno a trovarli, parlano con loro, li portano in giro. «Trarre gioia da qualcosa che fanno, e da qualcosa di normale: è questo che cerchiamo di reinserire nella loro vita durante il primo anno che stanno qui». E per essere felici serve vedere un risultato: il pane che si mangia a tavola, il latte che diventa formaggio e che viene acquistato dai negozi locali, il sorriso di una persona che sta male. Poi, riacquistata la capacità di vedere gli altri e se stessi in funzione degli altri, si comincia con la formazione, il lavoro, la ricostruzione della propria vita in modo che essa possa funzionare anche fuori.
«È proprio il fuori che ci preoccupa sempre più – spiega il presidente della Comunità, Antonio Tinelli –, col suo “disimpegno”, che è il contrario di quello che insegnamo qui dentro: disimpegno è non fare nulla, è restare indifferenti, è guardare il ragazzo che si butta dalla finestra a Lavagna e dire "colpa della polizia che ha bussato alla porta", è pensare al giovane massacrato ad Alatri e concentrarsi sulle "rivalità tra paesi vicini"». Un tempo c’erano i “drogati”, oggi ci sono i “ragazzi”. Invisibili, dimenticati, «perché in fondo fa più comodo: chi si occupa di loro e delle problematiche in senso socio-politico? Da quanto tempo non li vediamo comparire nei programmi, nelle strategie di governo?». Il sogno di Tinelli sarebbe invece un’Italia che funziona come San Patrignano: «Noi non costiamo nulla ai ragazzi e alle famiglie, facciamo tutto gratuitamente. E non facciamo nemmeno assistenzialismo: i ragazzi entrano e con il loro lavoro e il loro impegno fanno stare in piedi questo posto. Il risultato? Il 72% di quelli che passano di qui li recuperiamo, il 96% di quelli che escono da qui si reinseriscono nella società e nel mondo del lavoro. Se questo modello fosse replicato, se a far questo per i ragazzi fosse lo Stato, quanto bene guadagnerebbe la nostra società?».
Tra il sogno e la realtà c’è in mezzo anche la fatica di San Patrignano. Che sta in piedi con le proprie gambe, che vive del lavoro con cui salva i ragazzi ma che paga anche le ferite della crisi e la scelta, nonostante tutto, di non lasciare fuori nessuno: «Ogni anno qui arrivano 2mila persone a chiederci aiuto. Il telefono squilla in continuazione, ed è sempre disperazione dall’altra parte» dice ancora Tinelli. La comunità ha aperto una struttura minore, non lontano da Coriano, dove si fa preaccoglienza: ci passano gli ospiti poco motivati, e da qualche tempo gli azzardopatici, sempre più numerosi e bisognosi di percorsi terapeutici a parte. «Dire sempre di sì, provare comunque a restituirli alla vita». Vale la pena, far fatica.
Il male del mondo si riversa sui più piccoli. E quanto sono piccoli. La comunità ha due centri minori, uno maschile e uno femminile. Niente da stupirsi, qui, se una ragazzina di 14 anni arriva coi segni delle siringhe nelle braccia: «L’eroina iniettata in vena ha ripreso piede in maniera impressionante – continua Boschini – e nemmeno noi sappiamo spiegarci perché». Quello che invece è chiaro ormai è il percorso che gli adolescenti fanno rispetto all’uso di sostanze: «L’alcol e la canna arrivano proprio intorno ai 14 anni ed è ormai diffusissimo. Dipende dai fattori ambientali, dal mondo che circonda i nostri adolescenti, dalla deriva socio-culturale innanzi a cui tutti ci troviamo». Il salto verso la dipendenza si consuma là dove c’è disagio (affettivo, esistenziale) e negli ultimi anni è diventato devastante: «Abbiamo ragazzini che arrivano segnati dall’alcol, dalla ketamina, dall’eroina e dall’azzardopatia insieme. Nelle ragazze – a San Patrignano sono il 20% degli ospiti – quasi sempre si aggiungono i disturbi alimentari».
La cura? Si chiama fare qualcosa per qualcun altro. L’abbraccio, che a “Sanpa” è il gesto più comune. A parole fa sorridere, nei fatti muove la comunità dall’alba al tramonto: riempie le stalle, le vigne, il caseificio, i ristoranti (due aperti al pubblico), le cucine, il forno, la scuola. E anche il reparto di degenza e l’hospice per malati terminali ospitati nella struttura: 50 posti letto, molti occupati da malati di Aids. Di cui si prendono cura i ragazzi, che vanno a trovarli, parlano con loro, li portano in giro. «Trarre gioia da qualcosa che fanno, e da qualcosa di normale: è questo che cerchiamo di reinserire nella loro vita durante il primo anno che stanno qui». E per essere felici serve vedere un risultato: il pane che si mangia a tavola, il latte che diventa formaggio e che viene acquistato dai negozi locali, il sorriso di una persona che sta male. Poi, riacquistata la capacità di vedere gli altri e se stessi in funzione degli altri, si comincia con la formazione, il lavoro, la ricostruzione della propria vita in modo che essa possa funzionare anche fuori.
«È proprio il fuori che ci preoccupa sempre più – spiega il presidente della Comunità, Antonio Tinelli –, col suo “disimpegno”, che è il contrario di quello che insegnamo qui dentro: disimpegno è non fare nulla, è restare indifferenti, è guardare il ragazzo che si butta dalla finestra a Lavagna e dire "colpa della polizia che ha bussato alla porta", è pensare al giovane massacrato ad Alatri e concentrarsi sulle "rivalità tra paesi vicini"». Un tempo c’erano i “drogati”, oggi ci sono i “ragazzi”. Invisibili, dimenticati, «perché in fondo fa più comodo: chi si occupa di loro e delle problematiche in senso socio-politico? Da quanto tempo non li vediamo comparire nei programmi, nelle strategie di governo?». Il sogno di Tinelli sarebbe invece un’Italia che funziona come San Patrignano: «Noi non costiamo nulla ai ragazzi e alle famiglie, facciamo tutto gratuitamente. E non facciamo nemmeno assistenzialismo: i ragazzi entrano e con il loro lavoro e il loro impegno fanno stare in piedi questo posto. Il risultato? Il 72% di quelli che passano di qui li recuperiamo, il 96% di quelli che escono da qui si reinseriscono nella società e nel mondo del lavoro. Se questo modello fosse replicato, se a far questo per i ragazzi fosse lo Stato, quanto bene guadagnerebbe la nostra società?».
Tra il sogno e la realtà c’è in mezzo anche la fatica di San Patrignano. Che sta in piedi con le proprie gambe, che vive del lavoro con cui salva i ragazzi ma che paga anche le ferite della crisi e la scelta, nonostante tutto, di non lasciare fuori nessuno: «Ogni anno qui arrivano 2mila persone a chiederci aiuto. Il telefono squilla in continuazione, ed è sempre disperazione dall’altra parte» dice ancora Tinelli. La comunità ha aperto una struttura minore, non lontano da Coriano, dove si fa preaccoglienza: ci passano gli ospiti poco motivati, e da qualche tempo gli azzardopatici, sempre più numerosi e bisognosi di percorsi terapeutici a parte. «Dire sempre di sì, provare comunque a restituirli alla vita». Vale la pena, far fatica.
da www.avvenire.it
@Riproduzione Riservata del 23 aprile 2017