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L'incontro . Zuppi: «Capire il dolore degli altri è la premessa per fare la pace»

di Luca Liverani
da www.avvenire.it
@Riproduzione Riservata del 04 novembre 2024

Il presidente della Cei e Paolo Mieli a Sulmona per dialogare di "Giustizia e perdono". Lo storico: «Don Matteo mi ha fatto cambiare idea». Il cardinale: anche l'altro può avere delle ragioni.-

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Il cardinale Matteo Zuppi dialoga con Paolo Mieli al teatro M.Caniglia di Sulmona - Fondazione Carispaq

«Capire anche il dolore degli altri è davvero la premessa della pace. Difendendo le proprie ragioni, certo, senza irenismi, senza accordi al ribasso. È uno sforzo che richiede fatica, perchè capire i propri torti non è mai facile, si ha paura che riconoscerli indebolisca le proprie ragioni. Al contrario, ammettere i propri torti rafforza le proprie ragioni, le rende ancora più mature. Come capire le ragioni e il dolore degli altri». A parlare di pace è uno che ha avuto da Papa Francesco l’incarico di mediare con la Russia per la liberazione di bambini e prigionieri. Un lavoro difficilissimo, frustrante, da qualcuno perfino frainteso. Ma il cardinale Matteo Maria Zuppi ha la gentilezza e la tenacia per andare avanti senza esitazioni. E racconta il suo approccio di “costruttore di pace” all’incontro su “Giustizia e perdono” organizzato sabato sera a Sulmona dalla Fondazione Carispaq nel bel Teatro comunale Caniglia. In un dialogo sul palco col giornalista e storico Paolo Mieli.

Parlare di pace e perdono a Sulmona non è una coincidenza. La città abruzzese - nota nel mondo per i confetti forniti anche per il matrimonio principesco di Harry e Meghan - per 50 anni è stata la città in cui ha vissuto come eremita Pietro da Morrone. Eletto papa col nome di Celestino V, anticipò il Giubileo con l’emanazione della bolla della Perdonanza per chi si recava nella basilica di Santa Maria di Collemaggio a L’Aquila.

E il dialogo tra il cardinale e lo storico è anche l’occasione per un’altra (piccolissima) riconciliazione
«Don Matteo è una persona che mi ha fatto cambiare opinione – esordisce Paolo Mieli – perché all’inizio della guerra in Ucraina ero diffidente nei confronti di quello che avrebbe potuto fare la Chiesa cattolica. Tutti i pontefici in tutte le guerre dichiarano il loro impegno per la pace, ma rimangono parole. Il cardinale Zuppi è partito per una missione sulla quale pure avevo un milione di perplessità. Almeno, pensai, una cosa concreta. Quando abbiamo avuto già delle discussioni, gli facevo presente queste mie esitazioni». Passano i mesi e Mieli si dovrà ricredere. E lo riconosce: «Il cardinale Zuppi non è un uomo che usa parole di perdono e di pace. No, durante le guerre, fa il perdono e fa la pace. Di quei bambini lui non ne parla, perché ha un impegno, ma ho avuto prova da testimoni diretti che è riuscito durante la guerra a fare quello che nessuno riesce a fare, cioè operare per la pace mentre la guerra è ancora in corso».

E operare la pace, spiega Mieli, significa anche «dover stringere mani sporche di sangue». Perché «in quel momento quella mano insanguinata, stretta per far rilasciare un bambino, significa tantissimo. È così che si costruisce la pace, non facendo chiacchiere». Perché ricorda lo storico, «la pace com’è noto si fa con i cattivi, ognuno poi giudica chi sono i buoni e chi sono i cattivi».

Il presidente della Cei sprona tutti all’impegno di «fare la pace, senza mai dimenticare la giustizia». Un compito improbo: «Molte volte pensiamo: ma io che cosa posso fare? Le possibilità che abbiamo dobbiamo sfruttarle tutte. Porsi dei grandi sogni, misurarsi con le difficoltà del mondo è qualcosa cui non dobbiamo mai rinunciare. Certo, la speranza ha un prezzo, i sogni richiedono un coinvolgimento, un impegno, sacrificio». Ma la pace, ricorda il cardinale di Bologna, «è fatta di tanti piccoli mattoni. Un ponte senza i singoli mattoni non c’è. I mattoni siamo noi». Soprattutto moi che viviamo in Italia e in Europa, «una reatà straordinaria. Frontiere su cui si sono ammazzate milioni di persone per secoli, da muri sono diventate cerniere che uniscono». Ma la pace, come la democrazia, non è una volta per sempre, avverte il Cardinale: «Nostra responsabilità è continuare a far sì che le tante trincee che in questi ultimi anni si stanno ri-scavando possano trovare delle soluzioni».

E poi «la pace si fa con chi fa la guerra», concorda Zuppi. Un concetto ovvio, ma che oggi «può creare non pochi problemi. Tanto più in una generazione come la mostra che ama la polarizzazione». Dai tempi del mondo diviso in due blocchi «oggi è tutto molto più complicato», e soprattutto «gli strumenti che dopo la II guerra mondiale la comunità internazionale si era data, penso soprattutto all’Onu, sono largamente insufficienti».

La pace si fa con i nemici, dunque. Ma attenzione: «Dare la mano a tutti, anche a chi ce l’ha insanguinata, non vuol dire mai dimenticare le responsabilità di ciascuno. Significa invece trovare tutti i modi perché si possa ricostruire quello che la guerra ha distrutto». Il Cardinale ricorda poi un passaggio arduo ma inevitabile: «Non c’è giustizia senza perdono». Che non è, chiarisce subito «dimenticare, o rendere tutto uguale. Il perdono affronta e risolve le cause».

Paolo Mieli concorda: «Se in Europa siamo diventati popoli pacifici, è solo perché abbiamo conosciuto secoli di guerre» interrotte più che dalla pace, da tregue fragili: «Ci sono storici che considerano la I e la II guerra mondiale una sola guerra, interrotta da una pace non autentica». E allora, dice lo scrittore. «qual è la vera pace? Cosa è connesso all’idea di giustizia e di perdono? È capire che voi, noi, dobbiamo tutti tenerci le nostre opinioni, ma capire che ci sono ragioni della nostra parte, ma anche torti. E ci sono torti, ma anche ragioni della parte avversa».

Il cardinale Zuppi annuisce: «Riconoscere le ragioni dell’altro serve ad aiutarlo a trovare la soluzione. Non per pensare tutti la stessa cosa, ma per imparare a vivere insieme. Quando le ragioni dell’altro diventano un po’ anche le mie, c’è la possibilità di una vera riconciliazione». Il presidente della Cei spiega il perché della sua “mission impossible”ucraina: «La spinta che ha portato papa Francesco ad avviare questa missione - che non è un piano, ma la ricerca di tutti i modi per spingere nella direzione giusta - è non rassegnarsi alla guerra, non accettarla, cercarla comunque. È chiaro che noi dobbiamo cercare la pace quando non c’è. Credere nella luce quando c’è buio. Affrontare la fatica di cercare questa benedetta chiave della pace, che non ce l’ha mai uno solo». I torti e le ragioni: «La cosa più delicata è la comprensione delle posizioni, e la storia ci può aiutare. Non per guardare indietro, ma per guardare avanti con consapevolezza».

Costruire la pace non significa immaginare un mondo utopico senza conflitti: «Ci sono e ci saranno, accompagnano la vicenda umana, ma non è detto che per risolverli bisogna per forza fare la guerra. Anzi, proprio perché abbiamo visto la forza distruttiva della guerra, con consapevolezza dobbiamo trovare altri strumenti. Da qui il multilateralismo, la scelta di perdere sovranità per una struttura che sia in grado di ricomporre i conflitti, un luogo deputato. Fu la grande intuizione delle Nazioni Unite. Stiamo dilapidando un patrimonio straordinario. Se di nuovo la pace diventa una tregua, è davvero pericolosissimo».

Il presidente della Cei ha ben chiaro il rischio dell’escalation e della deflagrazione totale: «Non dobbiamo perdere la consapevolezza che la Terza guerra mondiale sarebbe l’ultima, proprio per la forza distruttiva esponenzialmente cresciuta in questi 80 anni. Non possiamo pensare che l’equilibrio della paura sia sufficiente». Tantomeno l’uso della deterrenza atomica: «Basta una scintilla, un meccanismo che nessuno più controlla. Succede così».

L’Ucraina, ma anche la martoriata Terra Santa. Il Cardinale racconta del viaggio a Gerusalemme dopo la brutale strage di Hamas: «Ci siamo andati per dire: vi siamo vicini, vinciamo la paura. Tutte le parti hanno apprezzato quanto è stato importante che li abbiamo ascoltati». E racconta della mamma di uno degli ostaggi: «Rachel, una donna minuta, la madre di Hersh Goldberg-Polin, rapito anche lui in quello sciagurato 7 ottobre da condannare con tutta la chiarezza e senza nessuna ambiguità. Purtroppo Hersh è uno dei sei ostaggi uccisi due mesi fa. E Rachel ha detto: “Io non voglio che il mio dolore provochi altro dolore. Non c’è una classifica dei dolori”. Il suo sforzo era quello di capire anche il dolore degli altri. Questa è davvero la premessa della pace». Quella di Rachel, conclude il cardinale Zuppi, «è una grande testimonianza di sguardo rivolto al futuro. Difendere le proprie ragioni, ma imparando a capire le ragioni degli altri. Per imparare a vivere insieme».

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