L'ultima frontiera delle comunità. Don Mazzi: noi non bastiamo più
di Fabio Poletti
Il fondatore di Exodus: «Negli Anni 70 si drogavano per un disagio. Oggi perché deve essere carnevale tutti i giorni».-
Ultima fermata Parco Lambro, il capolinea di chi dice basta. Come questo ragazzo di 23 anni nato in Marocco, canotta blu e bicipiti pompati che saltella sul campo da basket. È arrivato in Italia senza famiglia a 12 anni, si è fatto tre anni di galera per spaccio e rapina, si è strafatto di alcool e cocaina e pasticche, una vita randagia finita sulle panchine della stazione Centrale e poi in galera: «A febbraio ho finito gli arresti domiciliari. Potevo andarmene. Ho deciso di rimanere. Voglio un’altra vita. Mi piacerebbe diventare un calciatore. Va bene anche il giardiniere». Nei 40 centri della comunità Exodus di don Antonio Mazzi sparsi in tutta Italia, di storie così ce ne sono mille. C’è il bambino che a 12 anni si sfonda di alcol e spinelli, l’industriale che a 50 anni si è sniffato l’azienda, l’universitario che a botte di metanfetamina si è azzerato il cervello e poi impiegati, segretarie, operai, manager, ereditieri, disoccupati, vite assai ordinarie dei tossici di oggi. Don Antonio Mazzi che nel 1984 ha aperto il primo Exodus in questa cascina del Parco Lambro li conosce tutti: «Negli Anni 70 si drogavano per un disagio. Oggi perché deve essere carnevale tutti i giorni. La droga è diventata sinonimo di divertimento. Il carcere e la comunità non possono essere le uniche risposte. Da noi non si parla mai di droga. Meglio parlare delle loro vite.
La vita nel centro
Tra i prati pettinati del centro Exodus dove si coltivano fragole e mirtilli vivono in ottanta. Quasi tutti italiani ma ci sono anche un cinese, due sudamericani, un tunisino e il marocchino che sogna di fare il calciatore ma va bene pure il giardiniere. Nove vanno fuori di giorno a lavorare. Molti sono senza famiglia, appena usciti dal carcere finiscono qui agli arresti domiciliari. All’inizio non vedono l’ora di andarsene. Alla fine vogliono solo rimanere qui dove c’è qualcuno che gli vuole bene. Al mattino c’è l’ora di jogging nel parco, poi ci sono i laboratori di arte e di musica e il lavoro nell’orto. A pranzo si mangia tutti insieme in questa mensa con le tovaglie a quadrettoni e il forno per il pane. «Ma lo sai quanto è importante insegnargli a fare il pane?». Poi si ricomincia. Alle cinque c’è il rito collettivo del the con una psicologa. A cena si ferma solo chi vive qui, nelle camere al piano di sopra. A seguire la comunità ci sono cinque operatori, tra psicologi ed educatori. Il lavoro non è facile assicura Fiorella Bartoluzzi una delle educatrici: «Una volta venivano persone con una sola dipendenza. Adesso i poliabusi sono la norma.
Il mercato della droga
Il mercato della droga è un business con le sue leggi come per tutte le merci. Se la domanda aumenta, l’offerta si amplia e i prezzi calano per attrarre consumatori. L’alcool si trova al supermercato, i giovanissimi direttamente nel mobile di casa, hashish e marijuana sono state sdoganate da tempo, la cocaina nella città che fa sempre festa è diffusa come la pizza o il sushi, l’eroina è tornata da tempo e costa niente. Ma quella che è cambiata è la cultura del tossicodipendente, spiega la psicologa Miriam Mazzarella che in appena tre anni ha visto di tutto: «Alle medie abusano di alcool. A 15 anni sono pronti per la cocaina. Le pastiglie le trovano ovunque. Chi consuma eroina la sniffa o la fuma e si assolve: «Non sono un tossico, non mi buco io...». Il primo approccio è quello di allontanarli dalle sostanze. Poi bisogna ricostruire le loro passioni, i loro interessi alla vita prima della droga. Se dietro c’è ancora una famiglia è una sponda importante. Ma il nostro lavoro è lungo, lunghissimo. Non basta un anno per farli ritornare a vivere.
da www.exodus.it
@Riproduzione Riservata del 26 giugno 2018