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Il motu proprio di papa Francesco. Nuovo modo di capire la santità di sempre

di Stefania Falasca
«Ora esistono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità; ma la più grande di esse è la carità». Così san Paolo a conclusione del suo celebre Inno contenuto nella Prima lettera ai Corinzi sulla virtù infusa dell’amore e dirimente del cristiano. È stato perciò da sempre chiaro come a imitatio Christi – che per amore si è offerto al Padre sulla croce per il mondo – anche le vie alla santità canonizzata devono avere un denominatore comune nella carità, che è supremo vincolo della perfezione, pienezza della legge e anima stessa della santità. E ora proprio la possibilità del riconoscimento specifico di atti di carità eroica compiuti con l’offerta estrema della propria vita apre un nuovo iter giuridicamente percorribile nelle cause di canonizzazione.
Con il motu proprio Maiorem hac dilectionem sull’offerta della vita, papa Francesco ha infatti inteso aprire la via alla beatificazione e canonizzazione proprio di quei fedeli che, spinti dalla carità, hanno eroicamente fatto dono della propria vita per gli altri: in un supremo atto radicale di carità hanno accettato con libertà e volontariamente il destino di una morte certa, prossima e prematura sulle orme di Cristo, che ha dato la sua vita per noi. Una quarta via dell’offerta della vita, dunque, una nuova fattispecie che si aggiunge e si distingue così dalle procedure canoniche per giungere alla canonizzazione finora note, percorribili e praticate: quelle sul martirio, sull’eroicità delle virtù e sulla conferma di un culto antico chiamato «canonizzazione equipollente».
È un segno dei tempi anche questa via? Fatto è che a fare la differenza nell’esame di riconoscimento è proprio l’immolazione della vita per i fratelli in un atto supremo di carità che sia direttamente causa di morte, mettendo così in pratica la parola di Cristo: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per propri amici». È una via che certamente intende valorizzare ed elevare a esempio un’eroica testimonianza cristiana, finora rimasta senza una procedura specifica proprio perché, sebbene possa essere similare per certi versi alle altre, non rientra del tutto nella fattispecie del martirio (per questo infatti si deve dimostrare l’odium fidei da parte del persecutore che provoca la morte) come neppure in quella delle virtù eroiche dei confessori, dove si deve dimostrare l’espressione di un prolungato esercizio di tutte le virtù teologali e cardinali in grado eroico, anche se l’atto di carità vincolato alla causa della morte per l’offerta della vita non può essere separato dal vissuto delle virtù cristiane.
Con questo provvedimento che, come osserva monsignor Marcello Bartolucci, segretario della Congregazione delle cause dei santi, è frutto di un lungo tempo di riflessione, di esperienza del dicastero e di osservazione dell’attuale vissuto cristiano, «la dottrina sulla santità canonizzabile e la procedura tradizionale non soltanto non sono state alterate, ma si sono arricchite di nuovi orizzonti e opportunità per l’edificazione del popolo di Dio, che cerca nei suoi santi l’esemplare attuazione del Vangelo». Testimonianze così ci sono, e sono degne, per il bene che alimentano di fede e di speranza, di essere prese in considerazione e proposte come modelli oggi. Se per le sei suore Poverelle che nel 1995 morirono in Congo a causa dell’epidemia di ebola, capitolando una dietro l’altra nel giro di un mese, non fosse già stato inoltrato il processo sulle virtù forse oggi sarebbe stata adottata questa procedura ad hoc. Perché nel loro caso si è trattato proprio di consapevole dono totale di sé per i fratelli, nella libera accettazione propter caritatem di una morte certa e a breve termine.
Una scelta determinata a vivere tra i più poveri. Una storia di amore e di morte, di sofferenza e di fede, nella vicenda buia di un virus misterioso e terribile che scatena ciclicamente epidemie mortali in Africa. Sei donne bergamasche e bresciane che, nonostante l’infuriare dell’epidemia, si rifiutarono di tornare in Italia e rimasero a curare i malati. Avrebbero potuto riparare finché fosse passato il rischio di contagio e invece, consapevoli di mettere a repentaglio la loro vita, continuarono a stare accanto ai sofferenti. Senza aver mai pensato di abbandonare la trincea della carità. Fino all’ultimo respiro.
da www.avvenire.it
@Riproduzione Riservata del 12 luglio 2017

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