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Padova. Cipolla: sogno una Chiesa vicina alla gente

di Antonella Mariani
A colloquio con il pastore che guida la diocesi veneta dall’ottobre 2015. I poveri? «Dobbiamo andare a cercarli  e vanno fatti sentire a casa».-
Si entra senza particolari cerimonie da monsignor Cipolla. «Chiamalo don Claudio», suggeriscono i suoi collaboratori. E sia: don Claudio. Il vescovado di Padova – austero, imponente, vastissimo – raccoglie una storia millenaria di fede e di opere, esposta con solennità alle pareti. Volti severi dentro cornici massicce nei corridoi e nelle sale, fino allo studio del vescovo che ama essere chiamato “don”. Nell’anticamera lui ha già addolcito i toni: via un paio di seggioletrono tappezzate di preziosi broccati, spazio a un semplice divano su cui mettersi comodi. Ma soprattutto un enorme specchio a tutta altezza, dal pavimento al soffitto, che riflette chi arriva in visita. Per dire: la Chiesa non ha solo il volto austero dei pastori appesi alle pareti, ma anche quello delle persone normali che bussano alla porta, che aspettano una parola dal pastore.
«Sì, questo specchio serve per mostrare nuovi volti di Chiesa. Che siamo tutti noi». Cipolla è entrato a Padova, una delle diocesi più grandi d’Italia, il 18 ottobre 2015, senza conoscere affatto la città, «preso» da papa Francesco a sorpresa da una parrocchia di meno di 8mila abitanti a Mantova. E gli sembravano già tante lì, le grane... «Ma mi hanno detto: non devi accettare perché pensi di essere capace, ma perché ti è stato chiesto ». Ai padovani disse, nella prima omelia in Cattedrale: «Eccomi, sono Claudio». Semplice, no? E d’altra parte, non è questo ciò che Bergoglio ha chiesto ai vescovi in tante occasioni? Rendete «accessibile, tangibile, incontrabile » la misericordia di Dio, «siate instancabili nell’unico compito di accompagnare l’uomo che “per caso” Dio ha messo sulla vostra strada». «Sì, mi ci riconosco. Semplicità per me è sapere stare in mezzo alla gente, senza quei risvolti istituzionali e burocratici dai quali siamo stati riempiti dalla nostra storia e tradizione. Semplicità che riguarda gli ambienti in cui viviamo, gli abiti e i titoli. Via tutto quello che ci differenzia dalla povera gente, dalla quale noi siamo stati presi e tra la quale ci dobbiamo gloriare di vivere. Essere capaci di empatia con i nostri cristiani, con i fedeli delle nostre parrocchie, saper sentire le sofferenze di chi sta male, di chi è messo in disparte».
da www.avvenire.it
@Riproduzione Riservata del 04 agosto 2017

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