Pizzaballa: la nostra eredità è la tradizione della Chiesa
di Vincenzo Sansonetti
Tradizione, memoria, identità, verità, annuncio, continuità, destino e persino fede: una sequenza di parole che sembrano scomparse dal linguaggio ecclesiale, sono risuonate con forza nei padiglioni della Fiera di Rimini suscitando l’attenzione (e il convinto applauso) delle migliaia di persone che hanno partecipato all’incontro con monsignor Pierbattista Pizzaballa, amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme. Tra una piadina e un raviolo cinese in salsa italiana, tra il ricordo di Enzo Jannacci e le nuove frontiere della ricerca bio-farmacologica, l’intervento del cinquantenne vescovo bergamasco, fino all’anno scorso Custode della Terra Santa, ha dato un’impronta ed un senso al Meeting del 2017. Il senso più autentico, dal momento che ha illustrato e spiegato la frase del Faust di Goethe che è il titolo dell’edizione di quest’anno: “Quello che tu erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo”.
La grande stampa e gli osservatori che la sanno lunga al Meeting rincorrono come sempre la passerella dei ministri e dei politici, dei vip di ogni specie, tentando di indovinare gli scenari futuri del “teatrino” nostrano. Monsignor Pizzaballa, deposto il saio francescano ma non il cuore del santo di Assisi, pur presentandosi con molta modestia (“non sono un teologo, un sociologo né tantomeno un esperto di questioni politiche e ho più domande che risposte”), ha invece offerto una lezione alta di realismo cristiano, indicando un cammino da percorrere non solo al popolo ciellino ma all’intera Chiesa italiana. E lo ha fatto, con coraggio e semplicità, in un momento da lui stesso definito “post-cristiano”, almeno per ciò che riguarda il mondo occidentale. Non anticristiano, ma post. Siamo cioè “nel tempo della post-verità, del pensiero liquido, del tutto-e-subito; il tempo nel quale si deve vivere il presente e basta, dove i progetti sono a breve termine e il per-sempre non si concepisce”. Con espressione efficace, è come se fossimo “genitori di noi stessi”. Persi nel frammento, senza padre, non c’è più posto per Dio. Che in ambito scientifico e accademico culturale il pensiero cristiano fosse stato accantonato, era un fenomeno noto. La novità è che il riferimento cristiano, “che per secoli e generazioni in un modo o nell’altro ci ha accompagnato, non è più all’origine” né del pensiero comune né della vita sociale comune. “Non vi è più stata la trasmissione della fede nelle famiglie” e il resto è venuto da sé. Il relatore ha qui citato un passaggio del capitolo 21 della Evangelii Nuntiandi di Paolo VI: “La rottura tra Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca”. Un giudizio netto e chiaro e di estrema attualità.
Che cos’è la tradizione? “Ciò che abbiamo ricevuto dai nostri padri nella fede”. Ovvero “nulla di meno che la verità sull’uomo e sulla storia”. Purtroppo, è bene prenderne atto, “la nostra è un’epoca caratterizzata dalla rottura con la tradizione. Se in Occidente è stata la modernità a tagliare i legami con il passato, in Medio Oriente sono stati soprattutto i conflitti “a distruggere il tessuto sociale, culturale e religioso e a spazzare via quella continuità generazionale nella trasmissione della fede”. E’ giusto porsi oggi la domanda su come ripensare il nostro rapporto con la tradizione, ma la risposta può solo riguardare il “come”, cioè come individuare uno “stile cristiano” adatto alla complessità del nuovo modello sociale in cui siamo immersi. Il “che cosa” è lo stesso di sempre: “è Cristo Via Verità e Vita, incarnato e testimoniato in secoli e generazioni di credenti” e che ancora oggi attende testimoni credibili. Strettamente legata alla parola “tradizione” è la parola “eredità”, che in questo contesto ha un significato profondo, perché l’eredità “è Dio, il nostro legame con Lui, e tutto ciò che scaturisce da questa coscienza: idea di uomo e di umanità, di mondo e di creato, di cultura e tutto ciò che costruisce l’uomo”. Monsignor Pizzaballa ha invitato a “recuperare un rapporto sereno con la memoria”, perché “senza memoria non si ha identità e quindi nemmeno consistenza”. Non si tratta di nostalgia, ma di “recupero del senso di un cammino che può portare lontano solo perché viene da lontano”, facendo memoria “di una promessa che ci precede… nella consapevolezza che una società dimentica dei padri è una società di orfani, non di figli”.
L’amministratore apostolico di Gerusalemme ha messo in guardia da un rischio e indicato un modello da seguire. Il rischio è quello di una “memoria inquinata”, che è “forse peggio di una dimenticanza”, perché “bisogna ricordare ciò che fa vivere”. In questo senso si deve avere coscienza di un rapporto corretto tra il mondo e il Regno. C’è differenza tra ciò che è mondano e ciò che è cristiano. Sbagliato ritenere “che la novità della Chiesa di oggi sia quella di aver abolito la frontiera Chiesa-mondo, di aver aperto le porte a tutti”. Non si deve dimenticare che “siamo sempre portatori di una novità, di una unicità”. Se è giusto non accogliere acriticamente ciò che abbiamo ricevuto dai nostri padri, ma occorre farlo nostro, è altrettanto vero che “non si tratta di reinventarsi completamente nuovi, per essere attenti alla novità di questo mondo”. Il lavoro che ci attende è invece “cogliere il senso, il motivo, il desiderio che ha animato i nostri padri e costruire e realizzare ciò che ora noi oggi vediamo e di renderlo ancora comprensibile all’uomo del nostro tempo”. Forse non è più l’epoca delle cattedrali, ma c’è un esempio nella storia della Chiesa che ha molto da insegnarci ed è la figura di San Benedetto da Norcia, che non si è scoraggiato di fronte al disastro e alle rovine della civiltà romana, ma ha saputo con i suoi monaci ricostruire la civiltà occidentale e darle un futuro.
Qual è l’eredità che abbiamo tra le mani, qual è la sua natura? Non è un tesoro fatto “di valori sublimi, di una buona etica, di una prospettiva di perfezione”. Ci permettiamo di aggiungere: di una capacità di accoglienza. Queste caratteristiche in realtà sarebbero “comunque solo all’interno di una natura umana capace di compiersi senza Dio”. Non è ciò di cui abbiamo bisogno nel profondo. Invece “la nostra eredità è la Pasqua, la vita nuova, la vita di Dio in noi. Di questo abbiamo sete e di questo il mondo ha sete. Quando questo accade, allora accade la gioia”, che è il segno più eloquente “che il tesoro è quello giusto” e “si sta passando da questo mondo al Padre”. La modalità di trasmissione di questa gioia è la testimonianza, cioè “la consapevolezza di avere qualcosa di bello da dire e da dare al mondo”. Pizzaballa ha insistito sul fatto che dobbiamo “essere ancora capaci di una proposta, di un annuncio comprensibile, attraente, provocativo”. E ha rimarcato: “Non ci spaventano le ideologie e le mode”. Anche perché l’annuncio cristiano contiene in sé una originalità che le è propria, è “una novità interessante che ha qualcosa da dire nel mondo della cultura, della scienza, della tecnica, della formazione”. Esattamente il contrario di quello che si sente predicare da tanti pulpiti, sottolineiamo noi. Non è infatti utile a nessuno “un cristianesimo puramente morale e impersonale” e “non serve parlare di valori cristiani senza dire che Cristo è ciò che di meglio si può incontrare nella vita”. Conclusione suggestiva e lapidaria: “La Bibbia inizia in un giardino e finisce in una città. Inizia in un luogo fatto solo da Dio e finisce in un luogo dove l’opera di Dio si intreccia necessariamente con l’opera dell’uomo…anche la Gerusalemme dell’Apocalisse, la città che scende dal Cielo, una creazione che Dio non vuole edificare senza l’aiuto dell’uomo. Per questo a ciascuno consegna i suoi talenti, a chi cinque, a chi tre, a chi uno. A noi il compito di farli diventare mattoni della nuova Gerusalemme.
da www.lanuovabussolaquotidiana.it
@Riproduzione Riservata del 24 agosto 2017