Prime parole del bambino: quando e come si inizia a parlare
di Federica Gatti, Logopedista
da www.uppa.it
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L’età in cui di solito si inizia a parlare coincide all’incirca con il compimento del primo anno di vita, ma può variare tra i 10 e i 18 mesi, poiché ogni bambino è a sé. Ecco alcuni spunti per favorire non solo le prime parole, ma in generale l’uso del linguaggio nei piccoli.-
«Mamma, quali sono state le mie prime parole?». La proverbiale curiosità dei bambini si dirige anche sulla propria biografia. Alle volte domande come questa ci mettono in difficoltà, tuttavia spesso genitori e nonni ricordano con tenerezza quelle prime parole, annotate sull’album dei ricordi o legate a qualche episodio curioso.
Secondo un luogo comune, le prime parole dei bambini rivelerebbero le caratteristiche della loro personalità: i più golosi diranno “pappa”, i più coccoloni “mamma”, i più socievoli “bimbo”. Ma è davvero così? E qual è l’età “giusta” per cominciare a parlare?
Quando un bambino dice le prime parole?
Qual è l’età in cui si inizia a parlare? Prima di rispondere a questa domanda, occorre fare chiarezza su cosa sono le parole.
Una parola è l’etichetta verbale che utilizziamo per riferirci a un oggetto, un evento, una sensazione, eccetera. Deve possedere due caratteristiche:
- Intenzionalità. La parola deve cioè essere usata per uno scopo preciso. Il più delle volte le prime parole sono utilizzate dal bambino per fare una richiesta (Dirà «Latte!» per avere da bere) oppure per dichiarare qualcosa («Papà!» per dire che ha visto arrivare il padre).
- Significato. La parola nasce per veicolare un significato preciso. Ecco perché vanno considerate come vere e proprie parole anche le onomatopee (ovvero suoni che fanno gli animali e gli oggetti come “bau” o “brum”) e le parole incomplete (ad esempio “ino” per “palloncino”) o storpiate (come “cocciolato” per “cioccolato” oppure “tatto” per “gatto”).
Non conta invece come parola la lallazione (di cui parliamo in modo approfondito in questo articolo) perché essa non porta con sé un significato preciso, nonostante l’intenzione sia presente.
Stabilito ciò, quand’è che un bambino dice le prime parole? Quando è pronto, cioè quando ha sviluppato tre particolari requisiti:
- Responsività. È interessato al mondo e in particolare alle persone. Uno sguardo partecipe e sveglio ne è un esempio.
- Imitazione. Riesce a ripetere – a modo suo – gesti, smorfie, suoni, ad esempio rispondendo alle parole del nonno con un versetto.
- Attenzione condivisa. Si concentra su un fenomeno o un oggetto insieme a un’altra persona, come quando si guarda insieme un libro.
A queste abilità si uniranno in seguito anche la capacità di astrazione e la comprensione del linguaggio, entrambe necessarie affinché il bimbo pronunci la prime fatidiche parole.
La letteratura scientifica ci dice che di solito l’età in cui si inizia a parlare coincide all’incirca con il compimento del primo anno di vita (12-13 mesi). Tuttavia, durante la primissima infanzia vi è una grande variabilità nell’acquisizione delle tappe evolutive: ogni bambino segue la sua traiettoria di crescita e la norma oscilla in genere tra i 10-18 mesi.
Quali sono le prime parole dei bambini?
Esiste un database online ad accesso libero chiamato “Wordbank” che, tra le tante funzioni, ci aiuta a scoprire quali sono le prime parole in 42 lingue del mondo. È stato creato dal dipartimento di Psicologia dell’Università di Stanford, in California (USA), raccogliendo questionari compilati dalle famiglie, e analizza i dati di più di 92.000 bambini. “Mamma” è la prima parola in 12 lingue, mentre in sette lingue in prima posizione c’è “papà”. Questa “competizione” tra genitori può considerarsi risolta in parità se si prendono in considerazione i primi due posti della classifica: infatti, nella maggior parte dei casi quando la prima parola è “mamma”, la seconda è “papà” e viceversa. Tra le eccezioni ci sono il greco, dove prima in posizione c’è “nonna”, il danese con “ciao”, l’australiano con “marmellata” e l’israeliano con “automobile”.
Ma perché i bambini iniziano proprio da queste parole? I motivi sono ben tre:
- Sono composte dai suoni più visibili sulla bocca; i bambini osservano come parliamo e riescono a imitare con maggior facilità i suoni come /m/, /p/, /t/.
- Vengono articolati con parti della bocca già allenate durante la suzione.
- Fanno parte delle “parole sociali”, utili a chiedere qualcosa oppure a richiamare l’attenzione.
Ecco spiegato perché spesso tra le prime parole dei bambini ci sono i nomi dei componenti della famiglia, i nomi di cibi o giocattoli oppure le onomatopee.
Come aiutare i bambini a dire le prime parole?
Per favorire l’emergere delle prime parole si possono attuare specifiche strategie comunicative e proporre alcune attività. Ecco alcuni spunti su cosa fare per aiutare i bambini a parlare:
- Commentare. Proviamo a descrivere ciò che cattura l’attenzione del bimbo usando soprattutto delle parole collegate ai cinque sensi. Ad esempio, mentre manipoliamo le foglie secche: «Senti come scricchiolano [udito]. Profumano di bosco [olfatto]. Questa è ruvida, questa invece è liscia [tatto]». Anche le semplici pratiche di igiene personale possono essere ottimi spunti di narrazione e aiutare il bambino ad accettarle più volentieri.
- Ascoltare. Non dimentichiamoci che la comunicazione è un gioco che si fa in due! Non tempestiamo il bambino di parole ma lasciamogli sempre il tempo necessario per rispondere, anche se solo con un versetto. Può esser utile tenere a mente la regola dei 5 secondi, ovvero fare una pausa di 5 secondi tra una frase e l’altra. Al bambino verrà più facilmente voglia di ripetere o intervenire.
- Ampliare il suo (e il nostro) universo. Il linguaggio viene appreso per esperienza, quindi più esperienze si vivono, maggiori sono le opportunità di imparare qualcosa di nuovo. A tale scopo risulta preziosissima la lettura, insieme ad altre attività come ad esempio i massaggi neonatali e la musica in culla (spesso proposte dai consultori e dai centri per l’infanzia). Possono essere molto stimolanti anche situazioni apparentemente “semplici”, come una passeggiata al mercato rionale o frequentare il parco giochi.
- Parlare faccia a faccia, lentamente, usando la mimica e la gestualità, giocando con la voce. Queste accortezze permettono di articolare i suoni con maggior precisione ed esagerare un po’ i movimenti della bocca, incuriosendo più piccolini.
- Usare un linguaggio semplice, non semplificato. Sembra lo stesso concetto, ma ecco la differenza: “semplice” significa utilizzare i termini corretti e specifici, in frasi brevi ma complete; “semplificare” vuol dire invece utilizzare parole infantilizzate, troppo generiche o onomatopeiche perché si pensa, erroneamente, che per il bambino alcune parole siano troppo difficili.
Vediamo ora invece cosa non fare, con qualche indicazione su come correggere alcuni errori e luoghi comuni:
- Anticipare i suoi bisogni. In questo modo priviamo il bambino di un’opportunità per esprimere una richiesta o una scelta! Un esperimento utile a stimolare l’interazione è, ad esempio, porgere al piccolo il suo bicchiere, ma vuoto. Molto probabilmente cercherà di attirare l’attenzione con un richiamo o una parola per segnalare questo strano avvenimento!
- Bandire il bilinguismo. I benefici del plurilinguismo non si calcolano solo in termini di linguaggio, ma anche di sviluppo cerebrale e culturale. È importante che ogni genitore o familiare interagisca con il bambino nella lingua in cui è più competente per fornire il giusto modello.
- Se usa i gesti al posto delle parole, fare finta di non capirlo, così si sforzerà. Questa strategia purtroppo porta spesso a un aumento della frustrazione nel bambino e di conseguenza lo spinge a comunicare sempre meno. Piuttosto bisogna fornire l’esempio corretto: se il bambino fa un gesto per chiedere il suo pupazzo preferito, mentre glielo avviciniamo lo denominiamo correttamente in modo che possa abbinare la parola all’oggetto.
- Utilizzare video o cartoni animati educativi. Secondo le linee guida emanate della Società Italiana di Pediatria, i bambini al di sotto dei 2 anni non andrebbero esposti alla televisione o ad altri dispositivi elettronici. Attenzione soprattutto ai video e ai cartoni animati definiti “educativi” e pubblicizzati tra le soluzioni per il bambino che non parla. Questi prodotti, infatti, non forniscono un reale ambiente comunicativo: la conversazione rimane a un’unica via, dal momento che i personaggi non modificano le loro risposte a seconda dell’interazione del bambino.
- «Il ciuccio non ha mai fatto male a nessuno». Il ciuccio può essere un valido alleato dei genitori per tranquillizzare il bambino e facilitare l’addormentamento. L’uso però andrebbe circoscritto a brevi momenti durante la giornata e a partire dall’anno di età andrebbe disincentivato. Il ciuccio infatti tiene impegnata la bocca e riduce la spinta comunicativa.
Come capire se ci sono problemi?
Un ritardo dell’acquisizione del linguaggio può essere manifestazione di altre condizioni (sordità, disturbi dello spettro autistico, ritardo generalizzato dello sviluppo, sindromi genetiche…), ma può anche presentarsi in modo isolato e/o avere un carattere transitorio. Perciò, in caso di dubbi, è importante confrontarsi con il pediatra di famiglia, il quale conosce la storia familiare e personale del bambino e saprà guidare i genitori. Ecco quando può essere particolarmente necessario un consulto:
- se vi sembra che il bambino non ci senta bene, ha avuto numerose otiti, non reagisce se chiamato per nome o a suoni forti e improvvisi;
- se vi sembra che il bambino sia “nel suo mondo”, non riesca a mantenere il contatto visivo, non mostra capacità di attenzione condivisa, non sorride, assume comportamenti stereotipati e ripetitivi;
- se vi sembra che il bambino fatichi a muovere la lingua o i muscoli della bocca, in particolare se ciò avviene anche durante lo svezzamento e l’introduzione di alimenti solidi;
- se vi sembra che non comunichi con alcun canale comunicativo (gesti, espressioni facciali, versi…) oltre al pianto.