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Sviluppo del linguaggio dei bambini: fasi e consigli

di Federica Gatti , Logopedista
da www.uppa.it
@Riproduzione Riservata del 21 giugno 2024

Sebbene ogni bambino segua una personale traiettoria di sviluppo del linguaggio è possibile individuare alcune fasi comuni e aiutarlo in questo importante percorso con attività e stimoli quotidiani.-

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“Gli esami non finiscono mai”, titolo di una famosa commedia scritta da Eduardo De Filippo, è ormai frase d’uso comune per ricordarci che nella vita non si finisce mai di imparare. Anche lo sviluppo del linguaggio non termina di certo con l’infanzia, ma questo periodo della vita è senza dubbio importante perché è quello in cui si pongono le basi dell’individuo adulto e in cui i progressi sono all’ordine del giorno. Ogni interazione, ogni esperienza contribuisce alla crescita linguistica e cognitiva, confermando che l’apprendimento è un percorso senza fine. 

In questo articolo esploreremo le principali fasi dello sviluppo del linguaggio, per sapere cosa aspettarci durante i diversi stadi evolutivi: dalla gestazione fino ai primi 4 anni e mezzo di vita dei bambini. Scopriremo, inoltre, come aiutare i bambini a sviluppare il linguaggio, attraverso stimoli e attività quotidiane, e quali sono i campanelli di allarme a cui prestare attenzione. 

Quali sono le fasi dello sviluppo del linguaggio?

Occorre una premessa: ogni bambino segue la propria personale traiettoria di sviluppo. Ciò vale non solo per lo sviluppo del linguaggio, ma per tutti gli ambiti, quello motorio, cognitivo, emotivo, eccetera. Da qui nasce un’ulteriore precisazione: l’infanzia non è una gara. Ognuno arriverà a determinati traguardi con i suoi tempi, magari saltando dei passaggi o facendone alcuni in più. Questo perché la crescita dell’individuo è guidata da due fattori fondamentali: il patrimonio genetico (che è diverso per ciascuno di noi, con la sola eccezione dei gemelli omozigoti) e l’interazione con l’ambiente.

Di seguito descriviamo le caratteristiche delle fasi del linguaggio, così come le distinguono gli esperti per praticità di studio, ma teniamo a mente sempre l’esistenza di variabili individuali:

  • Gestazione, intorno alle 16 settimane dal concepimento (quando è lungo solo 11 cm) il feto possiede un udito quasi totalmente sviluppato e inizia a esser possibile la registrazione di alcune sue reazioni ai suoni. Secondo alcuni recenti studi, dentro al pancione i rumori esterni giungono molto attutiti; ciò che viene invece avvertita chiaramente è la voce della mamma, il battito del suo cuore, il suo respiro. È il momento giusto per i genitori per iniziare a parlare con il bambino! Non tutti sono predisposti a interagire con i piccoli, per cui un periodo di allenamento quando ancora il bambino non è nato permette all’adulto di capire quale sia il proprio stile comunicativo;ù
  • 0 mesi, quando è appena nato, ma sa riconoscere la voce di chi si prende cura di lui e discrimina la/e propria/e lingua/e madre dalle altre. Emette già dei suoni, detti suoni vegetativi perché legati alle funzioni vitali e soprattutto… piange;
  • 3-4 mesi, intorno a questa età compare il sorriso sociale, cioè il sorriso in risposta all’aggancio visivo con un’altra persona, soprattutto se familiare. Sono presenti dei vocalizzi ovvero dei suoni formati da vocali, con variazioni di nota e tono fino a sembrare una specie di canto. A questa età impara ad ascoltare gli altri e se stesso e il suono della sua voce lo diverte parecchio;
  • 6-7 mesi, è il momento della lallazione canonica“, cioè quando il bimbo produce delle sequenze di consonante e vocale ripetute, come «mamama» è facile scambiare queste produzioni per prime parole, ma non lo sono affatto! La varietà dei suoni che produce in questa fase diminuisce rispetto ai mesi precedenti perché inizia a rispettare le restrizioni fonologiche della lingua a cui è esposto. Alla nascita, infatti, abbiamo lo straordinario potere di riprodurre tutti i suoni delle lingue del mondo. Ascoltandone poi solo alcuni ci concentriamo su quelli che servono a parlare la lingua dell’ambiente in cui viviamo. Questo è uno dei motivi per cui si consiglia alle famiglie bilingue di interagire fin da subito con il bambino in tutte le lingue del contesto familiare, in modo che la sua percezione e pronuncia siano facilitate;
  • 9-10 mesi, la lallazione si modifica e in questo periodo si può riconoscere la “lallazione variata“. I suoni appunto variano, alternando diverse consonanti e vocali, per esempio «totitoti». Il bambino a questa età dovrebbe dimostrare di comprendere tra le 20 e le 100 parole: c’è una grande variabilità! Inizia a comparire l’uso di gesti come l’indicazione (o pointing);
  • 12-13 mesi, ecco finalmente le prime parole! Bisogna tener conto che il passaggio da lallazione a prime parole non è improvviso ma graduale. Il bambino comprende ora anche frasi semplici contestualizzate e il suo repertorio di gesti è più ampio: salutare, battere le mani e così via;
  • 12-18 mesi, a questa età il numero di parole utilizzate aumenta velocemente. A 18 mesi il vocabolario dovrebbe contenere all’incirca 50 parole. Proprio per tale motivo questa fase è chiamata del “lessico emergente”. Talvolta il bambino utilizza una singola parola che però rappresenta una intera frase: «palla» detto con l’intenzione di descrivere che «il bimbo ha tirato la palla fortissimo». Tecnicamente quel «palla» viene definita olofrase;
  • 18-24 mesi, vengono abbinate due parole per formare una frase. Si assiste anche a una esplosione del vocabolario, fino a 50 parole nuove al mese! In questa fase (in particolare tra i 20 e i 30 mesi) vi sono però vistose differenze individuali. Il linguaggio del bambino è comprensibile al 25-50% perché la pronuncia non è ancora del tutto accurata;
  • 24-30 mesi, le frasi diventano sempre più complesse, anche se è normale che siano incomplete. Sono ancora presenti distorsioni nella pronuncia perché non tutti i suoni sono pronunciati in modo corretto. Gli adulti dovrebbero riuscire a capire il 50-75% di ciò che viene detto dal bambino. Si possono contare circa 250 parole conosciute. Le onomatopee iniziano a trasformarsi in parole nel senso più stretto del termine: il «bau» diventa quindi il «cane»;
  • 3 anni e mezzo, le frasi sono complete ed è comprensibile il 75-100%, quindi quasi tutto quello che viene detto. Molto importante è però quel “quasi”, perché ci sono ancora dei suoni che possono essere pronunciati con difficoltà. In particolare vi possono essere semplificazioni di gruppi di consonanti: ad esempio «copa» per “scopa”;
  • 4 anni e mezzo, si stanno consolidando anche i suoni più difficili come la /r/. Si può dire che a questa età le competenze linguistiche di base siano acquisite. Ciò è fondamentale perché da ora il bambino potrà concentrarsi sui prerequisiti per imparare a leggere e scrivere, in particolare quelle competenze che vengono chiamate “metafonologia” e su abilità di linguaggio più “alto”, come l’uso ricreativo, l’ironia, i sottintesi. Come detto nell’introduzione, non si finisce mai di imparare e sotto alcuni aspetti (vocabolario, grammatica, pragmatici) il linguaggio progredirà per tutta la vita dell’individuo.

Come aiutare i bambini a sviluppare il linguaggio?

Chi studia lo sviluppo del bambino si imbatte, prima o poi, in un autore che ha dato una svolta importante alla prospettiva pedagogica: Lev Semënovič Vygotskij, psicologo e pedagogista che è stato addirittura definito il “Mozart della psicologia”. 

Egli ha basato le sue teorie sull’idea che nel bambino esista una distanza tra il livello di sviluppo attuale e il livello di sviluppo potenziale che può essere raggiunto con l’aiuto di altre persone; questa distanza prende il nome di “zona di sviluppo prossimale”. Essa rappresenta, quindi, quel compito che richiede al bambino un piccolo sforzo in più di ciò che sa fare con scioltezza e che può completare con un minimo aiuto da parte di altri. Ad esempio, una bimba di 3 anni potrebbe riuscire a tirare su la zip della giacca per chiuderla dopo che il papà le ha imboccato lo spillo inferiore dentro il cursore.

Il concetto di “zona di sviluppo prossimale” (anche detta “zona di sviluppo prossimo”) è importante quando vogliamo favorire lo sviluppo del linguaggio e, per definizione, funziona in qualsiasi fase si stia attraversando. Quindi, ecco una semplice regola: “aggiungi sempre un pezzetto in più”. Per esempio, quando il bambino esclama «Mamma, cane!», il genitore può rispondere «Sì, un cane grande!». In questo modo allunghiamo le sue frasi di un elemento alla volta, proponendogli un esempio da seguire e alla sua portata. Quando è la pronuncia, invece, a non essere precisa, forniamo anche in questo caso il modello appropriato, senza tuttavia insistere perché ce lo ripeta correttamente: «ino!» «Palloncino!». 

Grazie a questo trucchetto qualsiasi occasione può essere un buon momento per dare uno spunto al nostro bambino. Tuttavia, ci sono attività che fanno particolarmente bene allo sviluppo del linguaggio. Quali? Prima fa tutte, la lettura di libri, ma anche attività di ascolto e musicali, laboratori sensoriali (le parole che si apprendono meglio sono quelle legate ai 5 sensi), giocare nella natura, incontrare nuovi amici, visitare posti nuovi.

Campanelli d’allarme nello sviluppo del linguaggio

Ogni bambino segue la sua traiettoria di sviluppo, tuttavia certi genitori possono allarmarsi vedendolo in difficoltà e facendo paragoni con compagni di asilo, bambini conosciuti al parco, figli di amici o fratelli. Come capire quando preoccuparsi davvero? Durante i bilanci di salute il pediatra indaga attraverso alcune domande la presenza di eventuali campanelli d’allarme riguardanti lo sviluppo del linguaggio:

  • a 10 mesi assenza di lallazione;
  • a 12-14 mesi non utilizza i gesti per comunicare;
  • a 18 mesi usa un vocabolario inferiore a 20 parole e non comprende richieste “semplici” come «dammi la mano»;
  • a 24 mesi pronuncia meno di 50 parole;
  • a 30 mesi non combina almeno 2 parole per fare una frase;
  • a 36 mesi il linguaggio è scarsamente comprensibile.

Attenzione: la presenza di uno di questi segnali non stabilisce per forza la presenza di un disturbo del linguaggio! Molti bambini che a 18-24 mesi sembrano in ritardo, recuperano poi spontaneamente senza problemi: sono i cosiddetti “parlatori tardivi”. A seconda della storia del bambino e del racconto dei genitori, il pediatra di famiglia potrà fare le prime osservazioni e, se lo riterrà opportuno, indicare un approfondimento consigliando di rivolgersi allo specialista più indicato.

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