"Io, una vita per la Vita, soffro per le nomine PAV Si realizza il piano dei nemici di Humanae Vitae"
di Andrea Zambrano
Nei giorni scorsi hanno suscitato molte perplessità le nomine dei nuovi componenti della Pontificia Accademia per la Vita con l'ingresso nel board di ecclesiastici o studiosi di bioetica che sui temi della vita hanno posizioni ambigue o critiche nei confronti del Magistero della Chiesa. Ma come è stato è stato recepito questo spoil system dagli addetti ai lavori. Da coloro i quali con la vita nascente operano da anni come testimoni combattendo la cultura dello scarto che domina la nostra società. Tra questi testimoni dell'epoca moderna vi è Flora Gualdani, fondatrice dell'Opera Casa di Betlemme. La Casa di Betlemme un luogo di preghiera, casa di accoglienza, centro di formazione sul Vangelo della vita: un'opera spirituale, sociale, culturale unica in Italia. Così come lo è la Gualdani, che ha lasciato il suo lavoro di ostetrica per dedicarsi alla sua missione. Insieme ad altre personalità scientifiche e intellettuali prolife è tra i soci fondatori dell’associazione “Vita è” e in questa lunga intervista alla Nuova BQ ha tratteggiato un quadro sufficientemente ampio sulla crisi che sta attraversando la cultura pro life nel mondo cattolico. Ecco un estratto dell'intervista.
Flora Gualdani, ha letto su Facebook? C’è chi la reclama come presidente della Pontificia Accademia per la Vita. Al di là della “provocazione”, significa che nel campo pro life ha trasmesso qualche cosa.
Non sono un accademico però ho molte cose da dire sul piano della pastorale dove ho maturato un’esperienza di oltre mezzo secolo. Casa Betlemme è come un lungo ponte che collega i marciapiedi alle università, ha attraversato le corsie degli ospedali e le sacrestie, portando tra la gente il Vangelo della vita. L’ambulatorio ostetrico è uno speciale “confessionale” più frequentato di quello dei sacerdoti: ho ascoltato la vita concreta di migliaia di donne, ho camminato con loro e lungo i decenni mi sono fatta alcune convinzioni. Per aiutare la Chiesa cattolica ad attuare la dottrina ho consumato la mia vita e tutti i miei beni. Dalla scuola di vita di Casa Betlemme sono passati in molti: vergini e prostitute, analfabeti e professori, vescovi e sbandati, artisti e giornalisti, famiglie ferite e tante coppie di innamorati.
Eppure alla PAV è successo qualche cosa di epocale: un cambio di governance con l’innesto di personaggi ambigui se non perniciosi sul fronte della cultura della vita. E’ sorpresa?
Sì. La strategia ecclesiale dà l’idea di voler alimentare l’opinionismo, che è relativismo: la cosa mi fa soffrire. Il dialogo, da mezzo quale era, mi pare si stia trasformando nel fine di tutto. Molti dei miei maestri erano membri della Pontificia Accademia della vita. Anche la psichiatra Wanda Po?tawska, monumento vivente della bioetica. Ma la questione di fondo è che tale posizione della Chiesa non corrisponde alla prassi del popolo di Dio. Molti cattolici infatti si rivolgono alla fecondazione in vitro, che sta diventando un fenomeno di massa. Ci sono ricercatori cattolici con i loro ospedali e università che non seguono la linea dettata dalla Congregazione. Così come la stragrande maggioranza dei cattolici fa uso della contraccezione. La dottrina appare dunque come un fastidioso intralcio alla ricerca e al “progresso della civiltà”. C’è pressione perché la Chiesa sdogani contraccezione e fecondazione extracorporea, normalizzando questi comportamenti: sono i due argomenti scottanti su cui molti vorrebbero un insegnamento più gradevole.
Oppure la retorica dei muri da abbattere…
Il mio timore è che qualcuno, con l’idea di abbattere i muri, prenda di mira le fondamenta. Ho la sensazione che si voglia usare il dialogo per mettere in discussione alcuni fondamentali della bioetica cattolica, così come si sta cercando di mettere in discussione altri “assoluti morali” riabilitando l’etica della situazione e dell’intenzione, condannate dall’enciclica Veritatis splendor. In questa resa al mondo, un altro caposaldo a rischio è il concepimento come momento iniziale di ogni esistenza umana con tutta la sua dignità di persona. C’è chi vorrebbe spostare l’inizio in avanti dopo la fecondazione, con le teorie del “preembrione” o del “prezigote”: una manovra utile a giustificare certe posizioni abortiste e sono queste che hanno sollevato lo scandalo sulla PAV.
Lei ha denunciato più volte le infiltrazioni di un pensiero anti creazionista nella Chiesa. Le nomine alla Pav crede che risentano di questo pensiero?
Ci troviamo in un momento decisivo dove la Chiesa cattolica è chiamata a rimanere un baluardo di fronte a questa deriva antropologica. San Giovanni Paolo II tuonava: «Ci alzeremo in piedi…». Voglio sperare che la nuova PAV lo farà. Dal cattoprotestantesimo emerge un atteggiamento del tipo: “credo in Dio ma la morale a modo mio”. Paolo VI ci aveva già avvisato di questo possibile scenario. L’umanità sta accelerando il suo più grave divorzio da Dio. Si sta staccando sempre più drammaticamente dal progetto originario di Dio, dall’ordine della Creazione: da quando ha messo le mani sull’albero della vita, con la tecnologia riproduttiva. Un tempo la vita umana era sacra e intangibile, oggi invece è sacro l’aborto. Il figlio era una benedizione e un dono, oggi è diventato un errore da evitare oppure un diritto a tutti i costi: un amato oggetto di proprietà, tanto desiderato che chiunque potrà pretenderlo per via giudiziaria, nella dittatura del desiderio. Il Golgota si è spostato a Betlemme.
Oggi assistiamo ad un tentativo in ambito delle nuove nomine PAV di modificare il pensiero cattolico circa aborto e contraccezione. Humanae Vitae è ancora una pietra di inciampo?
Il tentativo di cui lei parla si può notare nell’estromissione del prof. Hilgers: un segnale preoccupante che potrebbe rappresentare il tassello di un nuovo assalto contro l’Humanae vitae. Hilgers è un ginecologo tra i maggiori esperti mondiali sulla regolazione naturale delle fertilità, direttore dell’Istituto Scientifico Paolo VI con sede in Nebraska. In un testo del 1982 scrisse che il Metodo Billings «è destinato a restare nella storia della medicina fra le grandi scoperte di questo secolo». La regolazione naturale della fertilità è un’avanguardia della bioetica, anche il mondo femminista si è accorto di quanto sia prezioso questo servizio alla persona. Eppure nell’immaginario collettivo è un argomento che continua ad incontrare pregiudizi o diffidenza, oltre a disturbare sicuramente una potente lobby. Molti la considerano ancora una posizione antiquata del magistero: il «masso erratico» che il teologo Chiavacci vedeva in contraddizione con lo spirito conciliare e con la stessa enciclica di Paolo VI.
Più volte ha denunciato il tentativo di manipolare fin dagli anni ’70 l’enciclica Humanae Vitae.
In realtà quella dell’Humanae vitae è una formidabile provocazione culturale che si colloca perfettamente anche nel campo della “ecologia umana”: una grande questione posta da san Giovanni Paolo II, ripresa da Benedetto XVI ed inserita da Papa Francesco dentro il nuovo statuto della PAV (art. 1 paragrafo 3). Sappiamo che la prevenzione dell’aborto non sta in una maggiore diffusione della contraccezione, ma in una diversa visione della sessualità e della fecondità. I metodi naturali sono l’alternativa autentica alla contraccezione.
Non è un caso che un nuovo membro della PAV faccia parte della commissione di studio che dovrebbe rivedere proprio l’impatto dell’Humanae Vitae sulla società.
Noto tre atteggiamenti ecclesiali nei confronti di questa enciclica. C’è sempre stata la posizione di coloro che vorrebbero rottamarla senza mezzi termini poiché la “mancata recezione” da parte del popolo di Dio ne attesterebbe il fallimento. Dall’altra parte c’è la posizione di coloro che riconoscono la forza profetica di quell’enciclica. Il terzo atteggiamento è l’approccio interpretativo, che ho visto affacciarsi in vista del 50esimo dell’Humanae vitae. Il tentativo di questa terza via non è altro che una rottamazione in modo più raffinato, attraverso una tecnica che definirei “imbalsamazione”: lasciare intatta la dottrina all’esterno, svuotandola da dentro attraverso abili “adattamenti pastorali”. E così l’enciclica di Paolo VI finirà elegantemente nella bacheca, in vetrina. Questo approccio parte dall’obiezione della presunta impraticabilità dell’enciclica. Si insiste nell’affermare che si tratta di un “ideale astratto”, bello ma lontano dalla “vita concreta” delle persone, riservato a poche “coppie speciali”.
Nei suoi interventi ha detto che a Casa Betlemme si applica l’Humanae Vitae quindi è falso dire che è un’enciclica irrealizzabile. Quali aspetti vengono messi in opera dell’Humanae Vitae nella vostra realtà?
Casa Betlemme è la dimostrazione che, se si vuole, anche la dottrina dell’Humanae vitae è capace di diventare prassi tra la gente. Tante giovani coppie si sono affascinate e hanno deciso di spendere la loro vita in questo apostolato laico e moderno. Lo sa bene anche il neo presidente della CEI perché, quando era nostro vescovo, Bassetti ha conosciuto i miei collaboratori e volle lui riconoscere ufficialmente quest’opera come espressione della Chiesa, dopo aver capito l’urgenza di una simile missione. Ma l’enciclica di Paolo VI può funzionare ad ogni latitudine, comprese le periferie esistenziali. Il nostro stile, nell’alfabetizzazione bioetica, è quello di trasmettere una morale incarnata, realizzando una delle più urgenti opere di misericordia spirituale: “istruire gli ignoranti”. Posso attestare che l’Humanae vitae è la via per costruire famiglie solide nell’epoca dell’amore liquido. Ma c’è di più: mi accorgo sempre di più che la teologia del corpo (cioè le 129 catechesi di san Giovanni Paolo II sull’amore umano nel piano divino) è un insegnamento grandioso che fa bene ad ogni persona prima ancora che alle coppie.
E’ vero che la crisi della PAV è iniziata quando è stato eliminato l’obbligo di giuramento da parte dei suoi membri?
Giovanni Paolo II e Jerôme Lejeune sono due santi e s’intendevano bene. Se hanno inserito quella dichiarazione è perché sapevano dove saremmo potuti scivolare lentamente. Vollero porre così il tema della fedeltà alla dottrina. Per l’esattezza, con l’«Attestazione dei Servitori della Vita» gli Accademici sottoscrivevano sette affermazioni ben chiare, iniziando con il riconoscere che «ogni membro della specie umana è una persona». L’art. 6 dello Statuto precisava che si perde la qualità di Accademico in caso di «azione o dichiarazione pubblica e deliberata contraddittoria a questi principi». Anche quello Statuto prevedeva il dialogo senza discriminazioni religiose però insisteva più nella necessità di sintonia con il magistero della Chiesa. Lejeune, richiamandosi alle prime parole del pontificato di Wojtyla, esortava ad obbedire al magistero «senza paura» e di coloro che su queste materie non accettavano il magistero, diceva: «Vedrete che «hanno parole di morte». Appello simile a quello che fece san Giovanni Paolo II nel discorso del 2 marzo 1984 riferendosi a Humanae vitae e Familiaris consortio: «La fedeltà a questi due documenti deve essere spesso pagata ad un prezzo alto: si è spesso derisi, accusati di incomprensione e di durezza, e di altro ancora». Aver tolto dallo Statuto quell’attestazione vincolante ha un significato preciso.
Parlando di giuramento non possiamo non arrivare a Lejeune. Lei lo ha conosciuto. Lo descriva in poche parole.
Era un gigante della fede e della scienza. Ma si vedeva che era anche figlio di artisti. Incantava, sapeva trasmettere concetti complicati in modo semplice e affascinante, per esempio nello spiegare il momento del concepimento. Lo ascoltavo a lezione al Policlinico Gemelli e se sapevo che parlava ad un convegno a Bologna o altrove, prendevo il treno per andare ad ascoltarlo di nuovo.
Che cosa direbbe oggi Lejeune se vedesse la sua “creatura” ridotta così?
Lui è stato il precursore nella battaglia contro la “cultura dello scarto”. Diceva che «quando la natura talvolta condanna, compito della medicina non è eseguire la sentenza ma commutare la pena». Se vedesse che aria tira nell’Accademia, osservando che in Francia non nascono più bambini down (il 96% vengono eliminati prima della nascita grazie alle diagnosi prenatali) e che la Danimarca - insieme ai record di produzione biologica e sostenibile - si è data l’obiettivo sanitario di divenire la prima nazione “down free”, credo che lui piangerebbe.
Lei ha parlato di martirio delle idee e del cuore. E’ arrivato il momento per chi si occupa di tutela della vita di metterlo in conto? Lei stessa ha subito effetti per questo martirio?
Da anni ripeto ai miei collaboratori di prepararsi a questo passaggio. Martirio delle idee significa che, per rimanere fedeli alla verità tutta intera, prima o poi si è chiamati a trovare il coraggio di rinunciare alla carriera e all’indice di gradimento, accettando forme di tribolazione e isolamento in ambito professionale. Lejeune ebbe il coraggio di giocarsi il premio Nobel pur di annunciare la verità, quando prese il microfono davanti all’ONU affermando: «Ecco un’istituzione per la salute che si trasforma in un’istituzione per la morte». Anche il beato Paolo VI, firmando l’Humanae vitae, dovette bere un calice molto amaro poiché non aveva accettato di allinearsi ad un parere della maggioranza. Venne attaccato da tutto il mondo e soprattutto dall’interno della Chiesa cattolica con un’accurata strategia internazionale guidata da teologi e pastori.
da www.lanuovabussolaquotidiana.it
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